Invernizzi Accetti spiega la rabbia come chiave del XXI secolo
Nel suo saggio Vent’anni di rabbia (Mondadori 2024), Carlo Invernizzi Accetti propone una lente d’ingrandimento per scrutare il nostro tempo, discutendo di temi ed eventi apparentemente sconnessi, dal crollo delle Torri Gemelle alla Brexit, passando per l’ascesa del Trumpismo e le proteste no-vax. Ma anche dal “Vaffa-Day” agli Indignados spagnoli, da Occupy Wall Street ai gilet gialli. Qual è questo filo che connette questi eventi? Una rabbia diffusa e viscerale, che ribolle sotto la superficie della società occidentale. Ma attenzione: non si tratta di semplici sfoghi. Invernizzi Accetti mostra come questa rabbia sia una reazione a qualcosa di più profondo. Ovvero, un’offesa percepita al proprio valore, una ferita alla dignità personale. Le manifestazioni di questa rabbia sono spettacolari, teatrali. Più interessate a farsi notare che a raggiungere obiettivi concreti. Dividono il mondo in bianco e nero, amici e nemici.
Paradossalmente, questa rabbia non mira a rovesciare l’ordine costituito, ma a restaurare un ordine morale che si percepisce violato. È come se la società occidentale, pur avendo raggiunto livelli di benessere e libertà senza precedenti, soffrisse di una profonda crisi d’identità. Invernizzi Accetti sostiene che alla radice di tutto ciò c’è una mancanza di riconoscimento sociale. Emerge così la figura del loser, il perdente della globalizzazione, o come lo chiama l’autore con un termine più incisivo, lo “sfigato”. Non è il proletario di marxiana memoria, privo di tutto tranne che delle sue catene. Al contrario, gode di diritti e di un certo benessere materiale. Ciò che gli manca è il riconoscimento simbolico, la sensazione di “contare” qualcosa nella società. È, in effetti, un paradosso dei nostri tempi: più abbiamo ottenuto in termini materiali, più sembra acuirsi il bisogno di riconoscimento. Ma da dove nasce questa crisi di riconoscimento?
Invernizzi Accetti punta il dito verso il declino della partecipazione politica attiva. I tradizionali canali di mobilitazione collettiva – partiti, sindacati, associazioni – sono in crisi profonda. Da anni. L’autore porta a sostegno una mole impressionante di dati: calo della partecipazione al voto, crollo delle iscrizioni ai partiti, diminuzione della sindacalizzazione. Invernizzi Accetti si confronta anche con la tesi fukuyamana della “fine della storia”. Paradossalmente, sostiene l’autore, il trionfo della democrazia liberale e del capitalismo non ha portato alla pacificazione sociale, ma ha acuito il bisogno di riconoscimento individuale. In società dove tutti sono uguali, la ricerca di distinzione è più pressante. In questo scenario, l’autore analizza le due principali risposte politiche emerse negli ultimi anni: il populismo e la tecnocrazia. Il populismo, con la sua retorica anti-élite e la promessa di “dare voce al popolo”, sembra cogliere il problema della marginalizzazione politica.
Tuttavia, le sue soluzioni si rivelano spesso controproducenti, finendo per concentrare ancora più potere nelle mani di nuove élite. La tecnocrazia, d’altra parte, crede che basti un buon governo basato sulla competenza per placare la rabbia popolare. Ma così facendo, ignora la domanda di partecipazione attiva che si cela dietro questa rabbia. Entrambe queste risposte, secondo Invernizzi Accetti, falliscono nel cogliere la radice del problema e rischiano anzi di esacerbare il senso di esclusione delle persone comuni. L’analisi di Invernizzi Accetti si fa acuta quando esamina il caso italiano, prendendo in considerazione il Movimento 5 Stelle e dei governi tecnici. Nato come veicolo di canalizzazione della rabbia popolare, il M5S ha finito per incarnare tutte le contraddizioni del populismo. Partito con lo slogan “uno vale uno” e la promessa di una democrazia diretta, si è scontrato con la realtà della gestione del potere, finendo per riprodurre i vizi della “casta”.
D’altro canto, i tecnici hanno mostrato i limiti della tecnocrazia. Accolti inizialmente come salvatori della patria, hanno presto suscitato opposizioni feroci, rivelando l’impossibilità di governare solo sulla base della competenza. Qual è allora la via d’uscita proposta dall’autore? Invernizzi Accetti non suggerisce nostalgici ritorni al passato, ma di inventare nuove modalità di coinvolgimento politico più adatte alle aspirazioni degli individui. Solo così, sostiene, si potrebbe offrire quel senso di riconoscimento e dignità la cui mancanza alimenta la rabbia. Come si possono sviluppare concretamente queste nuove modalità di mobilitazione? L’autore non offre una risposta definitiva a questa domanda. Ciò che emerge chiaramente, tuttavia, è la necessità di ripensare radicalmente le forme della partecipazione politica. Forse le nuove tecnologie potrebbero offrire nuove opportunità di mobilitazione – che pure comportano rischi.