La rivoluzione ungherese fu il frutto della voglia di libertà
È uscito postumo, in italiano, La rivoluzione ungherese e l’imperialismo totalitario (Raffaele Cortina Editore 2024) l’ultimo lavoro di Hannah Arendt. Che qui condanna la repressione dell’Armata Rossa in Ungheria e analizza i dodici anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale al bagno di sangue a Budapest. La filosofa si ascrive alla scuola di coloro che credono che il moto ungherese fu il frutto della richiesta di maggiore libertà. Fu una rivoluzione spontanea, scrive, che non aveva alcun leader. Dunque, non era organizzata da qualcuno, se non dal desiderio di libertà degli ungheresi. Molto spazio nel volume viene dato ai consigli rivoluzionari, che tuttavia vennero immediatamente soppressi dall’URSS. I curatori del libro, Simona Forti e Gabriele Parrino, ricordano le critiche seguite agli altri lavori di Arendt in cui veniva comparata il Terzo Reich con l’URSS all’interno dell’etichetta di regimi totalitari.
La filosofa ingaggia un’aspra polemica con la concezione della rivoluzione. Gli eventi del 1956 segnarono una prima frattura in seno al totalitarismo sovietico nei paesi satelliti. La rivoluzione ungherese è stata, nelle parole di Arendt, l’ultimo atto politico della lotta per la libertà. Curiosamente, quello che è successo in Ungheria non è accaduto in altro luogo al mondo. La scrittrice contestualizza anche per i profani la questione del 1956. «Per quanto spontanea sia stata la rivoluzione ungherese, non la si può comprendere al di fuori del contesto degli sviluppi successivi alla morte di Stalin, quando la lotta per la successione iniziò immediatamente e innescò una crisi nella Russia sovietica e nei paesi satelliti». Arendt ricorda che le società totalitarie senza classe in realtà sono a tutti gli effetti delle società atomizzate. Dunque, più facili da controllare. Le speranze della stagione di Nikita Krusciov furono subito gettate alle ortiche.
Il secondo testo del volume entra nel vivo della rivoluzione ungherese, il cui intento era alla volta di un desiderio di libertà e verità. Su questo ci sarebbe molto da dire perché è difficile misurare questo tipo di intenti dei partecipanti. Secondo Arendt il popolo ungherese stava vivendo in una menzogna. Dai giovani agli anziani, tuttavia, molti si resero conto che questa cosa non poteva andare avanti. Senza fare la cronaca, Arendt ricorda le ore fatidiche della rivoluzione. Da una protesta si precipitò nella rivolta armata. «Ciò che portò avanti la rivoluzione è stato il puro impeto di un intero popolo unito nell’agire insieme», scrive l’autrice. Curiosamente, «non ci sono stati saccheggi né violazione della proprietà, pur considerando che molti avevano un tenore di vita miserabile e un ingente bisogno di ogni genere di prodotti di sostentamento».
Il terzo scritto di Arendt tratta la tematica dell’imperialismo. Che è spesso e volentieri dovuto a ragioni economiche. L’impressione che si ha di questo testo, di certo non il migliore della Arendt, è che sia in effetti un po’ sommario. L’imperialismo totalitario rigetta e soffoca ogni opposizione in nega tutte le concessioni. Nello specifico «la principale preoccupazione dell’imperialismo russo non è stata la ricerca di una distinzione imperiale di tipo europeo tra le aree nazionali e coloniali, ma di un metodo con cui equiparare rapidamente le condizioni nei paesi appena conquistati, facendo sì che il loro tenore di vita fosse portato allo stesso livello di quello russo». Queste sono tesi valide, ma che non sono provate da dati economici o altro. Sono asserzioni anche valide della filosofa, che tutto sommato ci consegna un suo ultimo lavoro abbastanza debole.