Il rapporto tra Benedetto Croce e il fascismo
Mimmo Franzinelli ha scritto un lungo libro, Croce e il fascismo (Laterza 2024), sul rapporto tra il filosofo partenopeo e la dittatura mussoliniana. Si parte dai primi del Novecento. Il lancio della rivista La Critica nel 1903 segna un momento cruciale nel percorso di Benedetto Croce, diventando il suo principale mezzo di espressione e il punto di riferimento del movimento neoidealista. Giovanni Gentile lo affianca nell’iniziativa. La rivista viene pubblicata da Laterza. E si presta come un laboratorio culturale tra Napoli e Bari. Nominato senatore nel 1910 su proposta di Giustino Fortunato, Croce è il più giovane senatore del Regno, come osserva Vittorio Emanuele III nel riceverlo dopo la nomina. Croce non sviluppò mai una grande stima per il sovrano, nonostante l’attaccamento alla monarchia. All’inizio della Grande Guerra assume posizioni neutraliste, simili a quelle di Giovanni Giolitti, per via dell’impreparazione del Paese.
Rimane sconcertato dagli atteggiamenti bellicisti di intellettuali e politici, a partire da quelli assunti da Benito Mussolini, che lascia il Partito socialista per sostenere l’intervento da posizioni rivoluzionarie sul Popolo d’Italia. Nel novembre 1914 Croce si confida con l’amico Giuseppe Prezzolini e gli dice di non capire nulla delle avventure editoriali del futuro Duce. Durante la Guerra, scrive Franzinelli, diversamente da molti intellettuali, Croce evita la propaganda, preferendo coltivare le radici comuni dei popoli europei. Nel dramma di Caporetto trova conferma le sue perplessità rispetto all’inadeguatezza della nazione di fronte alla guerra. Nel primo Dopoguerra viene attaccato come tedescofilo. A difenderlo, Piero Gobetti, che lo considera un prezioso punto di riferimento per la vita culturale del Paese. In contrasto con Gabriele D’Annunzio, Filippo Tommaso Marinetti e altri intellettuali nazionalisti, Croce scommette sulla collaborazione europea e sul dialogo tra governi e popoli.
Dopo aver sostenuto la coalizione tra liberali, popolari e radicali guidata da Francesco Saverio Nitti, a cui è legato da un’antica amicizia, nel giugno 1920 entra nel quinto gabinetto Giolitti come ministro della Pubblica Istruzione. Ma trova la vita parlamentare deludente. «Perse tre ore e mezzo di tempo a udire discorsi che sono cattive conferenze su temi politici», annota nel diario il 5 giugno. Le elezioni del maggio 1921 vedono l’affermazione dei socialisti e del PPI. Deludente il risultato dei giolittiani. Alla Camera entrano trentacinque fascisti. Al centro e alla destra, il fascismo trova importanti estimatori. Antonio Salandra si sarebbe poi definito “fascista onorario”. Luigi Einaudi – per il quale Mussolini è “uno statista appassionato e pieno d’ingegno” – sul Corriere della Sera ne loda la linea economica. «Il programma del fascismo è nettamente quello liberale della tradizione classica», afferma. Mussolini riceve un’ampia fiducia e ottiene pieni poteri per un anno.
Il 17 novembre 1922, 306 deputati (tra cui Ivanoe Bonomi, Alcide De Gasperi, Giovanni Gronchi, Vittorio Emanuele Orlando) votano a fiducia al governo. Fortunato è uno dei pochi liberali da sempre contrari al fascismo. Mette invano in guardia Croce. Il quale afferma: «A me sembra che il fascismo abbia reso un gran servizio dimostrando col fatto la sterilità o nullità del socialismo […]. Il fascismo ha dato una forte scossa al degenere liberalismo; ed io spero che, dopo questo periodo di sospensione della libertà, e attraverso esso, si ripristini un più sano liberalismo». Non partecipa alla votazione della riforma elettorale maggioritaria (legge Acerbo), sebbene sia orientato favorevolmente, come Giolitti, Orlando e Salandra. «Stimo un così grande beneficio la cura a cui il fascismo ha sottoposto l’Italia», aggiunge. Le divergenze con Mussolini riguardano principalmente il giudizio sulla Grande Guerra.
Sul piano ideologico, la distanza è abissale, mentre sul piano pratico il filosofo approva l’opposizione alle sinistre e il rafforzamento dello StatoIl filosofo associa l’omicidio di Giacomo Matteotti non alle direttive del capo del governo, ma all’iniziativa di sostenitori indisciplinati. Una chiamata da parte di Gentile lo informa che Mussolini, grato per il sostegno, desidera nominarlo ministro dell’Istruzione. Ma Croce suggerisce di assegnare il ruolo al liberale Alessandro Casati, suo amico. Nel 1924, Croce perde le ultime speranze sulla possibilità che il fascismo possa aderire a principi liberal-democratici. Ma mentre Gentile si integra nel regime dittatoriale, Croce si schiera contro. L’aumento delle critiche dai giornali fascisti contribuisce a far sì che il filosofo venga visto come un’alternativa alla dittatura. Croce evita riflessioni autocritiche e continua a considerare coerente la sua strategia.
La contrapposizione Croce-Gentile si estende anche ai principi del sistema educativo. Il filosofo Carlo Curcio afferma: «Oggi riconosciamo il liberatore, il nostro filosofo, il vero e più completo interprete dell’idealismo, in Giovanni Gentile». Che nella primavera 1925, su richiesta del Duce, elabora un documento per dimostrare l’affermazione del fascismo nel campo culturale. Il Manifesto degli intellettuali fascisti appare sul Popolo d’Italia. Gli oppositori considerano Croce la figura più adatta per una piattaforma di opposizione. Il contro-manifesto difende l’indipendenza della cultura e respinge il controllo del potere. Equipara il fascismo a una degenerazione morale e una violazione dell’autonomia culturale. I giornali fascisti attaccano il filosofo. La breve rinascita del liberalismo si rivela fugace, nonostante il sostegno a Croce di Giolitti, Orlando e Salandra. Croce diventa quindi bersaglio del fascismo estremista attraverso l’esposizione mediatica, con Leo Longanesi capofila dello schieramento intellettuale.
Nell’Italia del 1929, criticare il Concordato come strumento della politica autoritaria del Duce era impensabile. Mussolini, però, è preoccupato per l’immagine internazionale del Croce. Che a Napoli, riceve figure di spicco della cultura internazionale. Tra i suoi lettori più attenti vi sono Max Weber, Karl Vossler e Stefan Zweig. Nel 1927 tiene un discorso presso l’Università di Marburgo. Mussolini ordina all’ambasciata italiana di organizzare una missione tedesca per Gentile. Nel 1931, Croce ha una conversazione con Albert Einstein a Berlino. Lo scienziato implora (senza successo) il ministro della Giustizia Alfredo Rocco, pregandolo di «consigliare il signor Mussolini di risparmiare al fiore dell’intelletto italiano un’umiliazione simile», riferendosi all’obbligo per i docenti universitari a giurare fedeltà al regime. Il discorso di Croce a Oxford riceve apprezzamenti di Thomas Mann, Ernesto Rossi e Antonio Gramsci.
Luigi Russo, che ha accettato di prestare giuramento, ricorda che «un comitato segreto di liberali presieduto da Croce concluse che bisognava restare sulle cattedre, perché non cadessero nelle mani dei barbari». Tra i docenti: Einaudi, Norberto Bobbio, Piero Calamandrei, Federico Chabod, Guido De Ruggiero, Arturo Carlo Jemolo, Adolfo Omodeo, Giuseppe Lombardo Radice, Concetto Marchesi. Solo una quindicina di professori negano il loro consenso. Tra di loro, il teologo Ernesto Buonaiuti, l’antropologo Mario Carrara, l’antichista Gaetano De Sanctis, il chimico Giorgio Errera, l’orientalista Giorgio Levi Della Vida, i giuristi Fabio Luzzatto, Edoardo Ruffini, Francesco Ruffini ed Enrico Presutti, il filosofo Piero Martinetti, il chirurgo Bartolo Nigrisoli, lo storico dell’arte Lionello Venturi, il matematico Vito Volterra. Otto di loro avevano firmato il Manifesto crociano. Tra i critici più noti c’è Ugo Spirito, già firmatario del manifesto gentiliano, che teorizza il corporativismo nell’ambito di una visione in cui l’individuo è immerso nello Stato.
Croce è bersagliato dai giornalisti, che il filosofo ignora. Nel 1928 esce Storia d’Italia dal 1817 al 1915, che ha una straordinaria diffusione. Nel plotone dei detrattori spicca Curzio Malaparte. Il Tevere attacca. Giolitti si congratula. Meno entusiasta Salandra. Croce segue con interesse le dinamiche europee, mostrando preoccupazione per il crescere dei movimenti nazionalisti e illiberali. Il suo comportamento e le sue pubblicazioni continuano a ledere l’immagine del fascismo all’estero. A differenza di Ernesto Rossi, Gramsci non condivide le conclusioni della Storia di Croce. Gli intellettuali fascisti si infastidiscono per il frequente utilizzo da parte di Croce del termine libertà. Per il filosofo, la civiltà moderna è strettamente associata al liberalismo. L’impatto di Croce sui giovani è di natura morale, prima che politica. Alcuni antifascisti borghesi lo considerano un punto di riferimento. Il percorso intellettuale di Carlo Rosselli, ad esempio, è significativamente influenzato da Croce.
In un’Italia dominata dal fascismo, Croce è l’eccezione. È l’antifascista legale, scrive Franzinelli. Tollerato a malincuore, progressivamente si formano le circostanze per escluderlo, ponendolo di fronte alla scelta tra accettare il regime o essere escluso dalle cerchie culturali. Nel 1926 Mussolini istituisce – ispirandosi all’Académie française (fondata nel 1634) – la Regia Accademia d’Italia. Essendo Croce il principale intellettuale del paese, gli viene offerta la presidenza. Che porta a due risultati, ricorda l’autore. Da una parte, il riconoscimento internazionale del regime. Dall’altra l’emarginazione politica del filosofo. Alla proposta, Croce risponde: «E che? Pensate di mettermi a cavallo di un porco?». Gli intellettuali fascisti risentono della sua leadership e lo criticano senza tregua. Soggetto a un monitoraggio costante, conserva al sicuro i documenti più importanti, evita di annotare nei suoi Taccuini di lavoro gli incontri compromettenti.
Una volta si reca nel Beneventano in veste di padrino in un battesimo – segue il rapporto dettagliato dei carabinieri. La corrispondenza viene monitorata e trascritta. Il servizio d’intercettazione si limita alla posta in entrata, poiché è impossibile seguire il filosofo o i suoi collaboratori tra i vari uffici postali per recuperare i pacchi spediti. All’apice del consenso al regime, Croce è isolato. Ritirandosi sempre più nella cerchia familiare, coltiva solo poche amicizie. Nel suo diario, le annotazioni politiche sono sempre più rare. Ciò che lo indigna maggiormente, portandolo a prendere posizioni pubbliche, è la persecuzione razziale. Nel 1933: «Non mai, e la storia lo attesta, le persecuzioni contro gli ebrei sono state di alcun beneficio ad alcuna nazione. I popoli credono di elevarsi con questi mezzi violenti, mentre lavorano al proprio indebolimento: credono di liberarsi dai loro oppressori, mentre tolgono da se stessi la loro libertà».
Nel 1934, La Critica definisce Martin Heidegger indegno e servile per aver politicizzato la filosofia nel suo discorso inaugurale come rettore dell’Università di Friburgo. Rispetto a Croce, Zweig è considerato impolitico e vanitoso. Quando ottenne un’udienza dal Duce per chiedere clemenza per Giuseppe Germani, lo scrittore austriaco cade nel trucco di Mussolini di accogliere gli intellettuali stranieri dicendo loro di aver letto tutte le opere, ricorda Franzinelli. Il 31 gennaio 1939 scrive: «Ciò che mi opprime veramente è la condizione generale degli spiriti in Italia e fuori d’Italia; la menzogna, la malvagità e la stupidità in cui siamo come immersi […]; gli atroci delitti ai quali si assiste impotenti (come è ora la fredda spoliazione e persecuzione degli ebrei, nostri concittadini, […] compagni, […] amici […]); l’incertezza del domani in ogni sfera della vita, anche in quella privata e familiare; la mancanza di aria aperta in cui pensieri e sentimenti nostri respirino».