La comoda scusa e accusa di democrazia afascista
Sembra che lo sostengano senza dirlo apertamente in Democrazia afascista (Feltrinelli 2024) Nadia Urbinati e Gabriele Pedullà. La democrazia va bene solo se è esercitata da sinistra. Tutto il resto è fascismo o quasi. Tesi note, purtroppo. Da anni. Che non fanno altro che continuare l’orrenda pratica di delegittimizzazione e scomunica dell’avversario politico. Di più: l’antifascismo va bene solo se condotto da sinistra. E tutti gli schieramenti politici sono fiancheggiatori o collaborazionisti di derive – di cui non c’è traccia se non nella fantasia di autori che devono sempre inventarne una – di supposti fascismi moderni. Anzitutto la definizione: la democrazia afascista è una forma di autocrazia elettiva, scrivono gli autori. Che contestualizzano questo modello nel “backlash” della democrazia a livello globale. Sotto attacco, il mondo conservatore. Insomma, tutti fascisti o pseudo-tali se non la pensa con gli autori.
C’è un governo che non piace? Allora si escogitano tutti gli artifici retorici – parandosi dietro le necessità e le finesse della scienza politica, in questo semplicemente con la lettera “a” di “afascista” – per dire che l’esecutivo in questione – quello di Giorgia Meloni – è sostanzialmente neofascista. Il volume di Urbinati e Pedullà parte da un lungo capitolo sulla democrazia. «Una delle caratteristiche peculiari della democrazia è che tutte le decisioni politiche devono essere pubblicamente criticabili e reversibili». Nell’Italia repubblicana tale diritto è sempre stato garantito. Ed è ancora in vigore. Gli autori spiegano che il plebiscito (sistema al quale farebbero riferimento le “destre” italiane) è l’alter della democrazia italiana che è parlamentare, pluralista. La destra che ha vinto le elezioni il 25 settembre 2022, scrivono Pedullà e Urbinati condivide, l’idea di democrazia afascista minimalista e antisocialdemocratica. Gli autori elaborano la democrazia afascista, insinuando che il governo non ne abbia i crismi.
1) Valori e principi. La Repubblica si impegna a promuovere l’eguaglianza e la dignità delle persone. 2) Cittadinanza attiva: la politica non è disturbo. 3) I partiti sono parte essenziale della democrazia elettorale. 4) Dissenso e conflittualità: formarsi idee non concordi con le idee altrui e sviluppare proposte sulla politica del paese. Chiunque non si identifichi con questa democrazia non solo non sembrerebbe democratico, ma risulterebbe un sostenitore della democrazia afascista. Non sembra che governi che non fossero di sinistra in Italia abbiano, 1) sospeso le libertà politiche delle persone. 2) Non si capisce come mai tutti i cittadini debbano impegnarsi in un tripudio nei confronti dello Stato, dello “stare insieme” collettivista caro a chi si sente di rappresentare la “parte migliore del paese”. 3) Non sono stati sospesi i partiti di opposizione. 4) Tutti i partiti possono esprimersi in tutta libertà.
Forse sollevare questi punti equivarrebbe beccarsi dell’afascista o sostenitore della democrazia afascista – di certo, gli autori non sembrano sostenitori di quella liberale. Gli afascisti sono definiti uomini del compromesso. Genesi di una parola, che si è affermata nel Dopoguerra per inquadrare l’atteggiamento di alcuni italiani verso il Ventennio. La parola ha avuto una certa fortuna con Giuseppe Berto, che ad un convengo disse: «Dico di non essere né fascista né antifascista […]. Il fascismo, dicono, è autoritarismo violento, coercitivo, retorico, stupido. D’accordo: il fascismo è violento, coercitivo, retorico, stupido. Però, come lo vedo io, l’antifascismo è del pari, se non di più, violento, coercitivo, retorico, stupido». Pedullà e Urbinati ricordano la lettera che Meloni ha mandato al Corriere della Sera in occasione del 25 aprile 2023.
Un documento ponderato, che nelle intenzioni della premier doveva avere lo scopo di chiudere una volta per tutte le polemiche sulle radici del suo partito. La lettera sembrerebbe smentire le tesi degli autori. «I partiti che rappresentano la destra in Parlamento hanno dichiarato la loro incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo», si legge. Ancora: «il frutto fondamentale del 25 aprile è stato, e rimane senza dubbio, l’affermazione dei valori democratici, che il fascismo aveva conculcato e che ritroviamo scolpiti nella Costituzione repubblicana». Gli autori, lo riconoscono, scrivono che Meloni rivendica di essere: 1) Democratica. 2) Non nostalgica. 3) Esentata dal doversi dire antifascista per essere democratica. Ma sembra nelle interpretazioni degli autori che comunque la si dica, non va mai bene. Non si capisce cosa si aspettino Pedullà e Urbinati da Meloni. Ogni tipo di abiura non pare sufficiente.
Pertanto, sembra che invece sussista solo un attacco gratuito per confermare le proprie tesi. «L’obiettivo è farci apparire l’antifascismo anacronistico, con l’aggravante che […] esso diventa niente altro che un’arma di esclusione», insistono i due. Nel mirino degli autori, che devono avvalorare l’unica tesi di fondo del volume (la democrazia è solo quella che diciamo noi e se non sei d’accordo sei sostanzialmente un fascista) entrano per forza di cosa i liberali e la classe liberalconservatrice del pre-Ventennio. A confermare che chi ha concezioni veramente totalitarie della democrazia (o la mia democrazia o sei un fascista), è – da sempre – il liberalismo. Si attacca – facile – Benedetto Croce per la sua breve luna di miele con il Fascismo – durata due anni. «I liberali non avevano compreso era l’ampiezza della reazione fascista». In parte vero.
«Alla base del fallimento del liberalismo c’erano i suoi ideali individualisti ed egualitari». In sostanza è colpa del liberalismo se si arrivò alla dittatura fascista. Meloni tenta di rassicurare l’elettorato conservatore – proprio come un tempo il Duce tentò di rassicurare i liberali che, su questo gli autori non sbagliano, avevano talvolta posture antidemocratiche e non apprezzavano fino in fondo la via dello Stato italiano verso il progressivo riconoscimento dei diritti sociali e civili di tutte le origini. Se «Meloni non progetta di riportare l’Italia al Ventennio: anche per lei le libere elezioni e il rifiuto della violenza politica sono un elemento acquisito», spiegano gli autori, «la presidente del Consiglio promuove tuttavia un’idea minima di democrazia, che senza dubbio sarebbe piaciuta molto ai liberali che guardarono con favore a Mussolini». Di nuovo: colpa dei liberali, colpevoli di non vedere il fascismo.
Per gli autori la “democrazia decidente” di Meloni sembra inaccettabile – ma non si capisce cosa debba fare, allora, una democrazia maggioritaria in un paese moderno se non decidere. «Con il suo afascismo idealmente non si riallaccia al regime mussoliniano, ma ammicca semmai a un liberalismo inegualitario e gerarchico». Gli autori sostengono, senza portare molti esempi, che la “nuova” (quale?) Repubblica meloniana sarebbe svincolata dall’antifascismo. E «rischia di essere molto diversa da quella che l’ha preceduta» (diversa quanto, come?) «pur senza» – ben inteso! – «ritoccare (ancora) formalmente il testo della Carta del 1948». Dunque, in che modo questo eventuale progetto autoritario si manifesterebbe? Solo per il fatto che un’erede del post-fascismo non urli di non essere antifascista? Forse più fascista è identificare un sistema politico fatto su misura per le proprie idee e bollare tutti gli altri come fascisti.
«La Costituzione italiana non tratta la democrazia come un sistema nel quale chi governa comanda e chi non governa obbedisce a testa bassa». Non è il caso di nessun governo della Storia della Repubblica. «Non è dunque il potere della maggioranza che qualifica questo governo, ma il principio della maggioranza». Il principio di maggioranza prevede che chi abbia una maggioranza in parlamento, governi. Un qualcosa che gli autori non concedono a fazioni politiche diverse dal proprio pensiero politico. Il cataclisma del 1992-1994 in Italia ha aperto quello che gli autori definiscono un «notabilato afascista, che aspira a porre fine all’esperienza della Repubblica parlamentare nata dalla Resistenza contro il fascismo» (anche qui, come? etc.). Da allora si assiste ad un sistema caratterizzato «non più democrazia per mezzo dei partiti, ma democrazia in mano al partito che di volta in volta vince» – quindi anche quando a governare è la propria parte politica di riferimento?