Gianni Oliva e i voltafaccia di chi non ha fatto i conti con la Storia

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In 45 milioni di antifascisti (Mondadori 2024) Gianni Oliva racconta il cambio di casacca di molti italiani dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. Da fascisti ad antifascisti. L’autore prende in prestito la massima attribuita a Winston Churchill – «In Italia sino al 25 luglio c’erano 45 milioni di fascisti; dal giorno dopo, 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l’Italia abbia 90 milioni di abitanti» – e analizza tutte le responsabilità della disfatta, generalmente attribuite solo a Benito Mussolini, ai gerarchi fascisti e a Vittorio Emanuele III. Tuttavia, quando i perdenti salgono sul carro dei vincitori la memoria storica viene spazzata via. Oliva costringe a guardare la Storia con onestà. Parte dal trasformismo italiano: «Gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso del vincitore», disse Ennio Flaiano. «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», scrive Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo.

Oliva analizza da un caso clamoroso di trasformismo, quello di Gaetano Azzariti, che iniziò la sua carriera nell’Italia giolittiana, assegnato all’Ufficio legislativo del Ministero di Grazia e Giustizia. Nel Ventennio fu capo dell’Ufficio, dunque responsabile di tutta la legislazione fascista. Presidente del Tribunale della Razza nel 1938, fu nominato da Pietro Badoglio ministro di Grazia e Giustizia e capo dell’Ufficio legislativo con il nuovo ministro Palmiro Togliatti. Giovanni Gronchi lo nominò giudice della Corte costituzionale. Nel 1957 divenne presidente della Corte stessa. Un esempio tra i tanti, ma forse uno dei più scandalosi. Gianni Oliva avverte che dopo la fine della guerra l’Italia non ha affrontato il proprio passato. D’altra parte, la Francia ha condotto 170mila processi per collaborazionismo, con 7mila condanne a morte. In Norvegia, paese allora con tre milioni di abitanti, 90mila persone furono arrestate per filonazismo.

In Italia prevalse la logica per cui era necessario garantire che lo Stato assicurasse la continuità degli apparati amministrativi, mantenendo i burocrati ministeriali, i magistrati, i prefetti, i questori e gli alti ufficiali ai loro posti. «Questa impostazione trova resistenza nel Partito socialista e nel Partito d’azione, ma non in quella che emerge come la forza più organizzata e forte della sinistra, il Partito comunista. Per Togliatti, consapevole del quadro internazionale che si delinea con la Guerra fredda e della cristallizzazione politica dei due blocchi, ciò che conta è la legittimazione di un partito che proviene dalla tradizione rivoluzionaria». Egli firmò dunque l’amnistia di massa del 22 giugno 1946. Tuttavia, «l’alibi di una guerra che si finge di avere vinto con la Resistenza serve a dimenticare le colpe di una guerra che nella realtà si è invece perduta», ricorda Gianni Oliva.

D’altra parte, «nel 1945 non c’erano né lo spazio politico internazionale, né quello politico interno, né quello sociale per una defascistizzazione radicale: si opponevano gli anglo-americani, le forze moderate, la mancanza di personale preparato per il “ricambio”». Il problema delle epurazioni si pose a partire dal luglio 1943. Con il Re in fuga, Togliatti riteneva che la priorità del PCI fosse quella di legittimarsi come partito nazionale italiano. Di conseguenza, nacque il governo Bonomi, composto da dc, socialisti, liberali e comunisti. Oliva si occupa anche della questione universitaria e del conformismo nei confronti del regime fascista dell’epoca. All’inizio dell’anno accademico 1931-32, il regime stabilì che tutti i professori universitari, sia di ruolo che incaricati, dovessero prestare giuramento di fedeltà. Solo in dodici – su 1.848 – rifiutarono di prestare giuramento.

«Certamente non sono molti coloro che lo fanno per convinzione, in un’università che Mussolini ha rinunciato a fascistizzare compiutamente: molti lo fanno per opportunismo, altri per paura, altri per conformismo, altri ancora per indifferenza, ma alla fine l’obbedienza è generalizzata, raggiungendo la percentuale plebiscitaria del 99,40 per cento». D’altronde, sin dall’avvento al potere, Mussolini ha considerato il binomio forza-consenso come il futuro percorso del suo regime. «Io dichiaro che voglio governare, se possibile, col consenso del maggior numero di cittadini, ma nell’attesa che questo consenso si formi, si alimenti e si fortifichi, io accantono il massimo delle forze disponibili». I processi per collaborazionismo coinvolsero circa 43mila italiani. Di questi, circa 14mila furono liberati con diverse formule. I condannati furono 5.928. Un caso emblematico è quello di Rodolfo Graziani, che diresse la repressione in Libia ed Etiopia, oltre a essere ministro della Difesa della RSI.

Si consegnò ai comandi anglo-americani, che lo trasferirono nel campo di prigionia di Cap Matifou in Algeria, dove poté dedicarsi alla scrittura delle sue memorie. Successivamente, fu riportato in Italia e detenuto a Procida. Il processo iniziò l’11 ottobre 1948, ma la Corte si dichiarò incompetente a decidere. Tuttavia, il 3 maggio 1950 fu condannato a diciannove anni di reclusione. Dopo aver scontato i quattro mesi di pena residua, Graziani tornò in libertà nell’autunno del 1950. Morì nel suo letto l’11 gennaio 1955. A delineare il quadro su cui si baserà la memoria pubblica è Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio. Il trattato di paese del 10 febbraio 1947, ratificato dall’Assemblea costituente, sancì l’Italia come paese sconfitto. Illuminante fu Benedetto Croce alla Costituente. «Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta tutti, anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime».

Si chiede Gianni Oliva: «Mussolini è il responsabile politico, Vittorio Emanuele III quello istituzionale: e gli intellettuali? I giornalisti? I docenti universitari? I professori di liceo? I maestri delle scuole? I compilatori dei manuali scolastici? Gli alti ufficiali delle forze armate? I magistrati? I burocrati dei ministeri? I prefetti? I questori? I grandi poteri economico-finanziari? Accanto e a sostegno del duce c’è un’intera classe dirigente». Renzo De Felice (Rosso e nero) ritenne che l’8 settembre non determinò la crisi italiana, ma evidenziò una crisi morale della stragrande maggioranza degli italiani già in atto da tempo. L’8 settembre morì la patria del Ventennio, quella che ha ripreso ed esasperato alcuni aspetti della patria risorgimentale rimuovendone però la natura liberale, negando le garanzie statutarie, la dialettica tra i partiti, il diritto di tribuna.

Un tassello fondamentale nella costruzione di una memoria pubblica autoassolutoria. La resistenza è diventata per molti, troppi, un alibi. Secondo De Felice, in sede storica non è sufficiente ridurre le vicende del 1943-45 alla contrapposizione armata tra fascismo e antifascismo. Oggi manca ancora un quadro interpretativo generale che riesca a collocare la Resistenza e la Repubblica sociale in un’unica storia d’Italia. «All’indomani dell’8 settembre ci fu, tra la maggioranza degli italiani, un atteggiamento di sostanziale estraneità, se non di rifiuto, nei confronti sia della che della RSI […]. L’ostilità e financo l’odio per il nazista invasore non fecero scattare la scelta alternativa di schierarsi con il movimento partigiano […]. Primum vivere fu l’imperativo interiore della gente. Sparire, rinchiudersi nel proprio guscio, non compromettersi con nessuna delle parti in lotta, sperare in una fine rapida della guerra, furono le regole principali» (De Felice).

Le scelte di campo sono riservate ai pochi, conclude Oliva. Rosario Romeo ha scritto che «la Resistenza, opera di una minoranza, è stata usata dalla maggioranza degli italiani per sentirsi esonerati dal dovere di fare fino in fondo i conti con il proprio passato». La guerra civile ha lacerato il paese e sarebbe auspicabile andare oltre il campanilismo. Gianni Oliva conclude con due immagini efficaci: «il “repubblichino” deve essere criminalizzato. Nella realtà dei fatti è il giovane […] figlio dell’educazione guerrafondaia della Gioventù italiana del Littorio […]. Il perdente rabbioso». D’altra parte «non si può non rilevare che la demonizzazione dei militi “repubblichini” serve soprattutto ad assolvere tutti coloro che sono stati fascisti sino al 25 luglio e che negli anni del regime hanno costruito carriere, ricevuto onori, lucrato fortune più o meno illecite».

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Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, classe 1997, MA in Relazioni Internazionali, BSc in Comunicazione, giornalista freelance, gestisce “Blackstar”, www.amedeogasparini.com