Valori e vizi del presidenzialismo in Italia
Verso il presidenzialismo oppure no? Capocrazia (La Nave di Teseo 2024) di Michele Ainis racconta di come il presidenzialismo sia la grande riforma annunciata dal governo di Giorgia Meloni. Che potrebbe realizzarsi in questa legislatura dopo decenni di attese e dibattiti. Ma un presidenzialismo sgangherato l’abbiamo già: è la capocrazia dei partiti; il potere esclusivo dei sindaci e dei governatori; l’uso eccessivo dei decreti-legge; una legge elettorale che ci trasforma in semplici spettatori. «Se una Costituzione si può migliorare, significa che si può anche peggiorare. È questo il rischio del presidenzialismo», afferma l’autore. La riforma è stata annunciata più volte nella Storia d’Italia. Un po’ come il ponte sullo stretto di Messina. Vagheggiato per decenni, più volte progettato; promesso ripetutamente a destra quanto a sinistra. La storia repubblicana italiana è punteggiata da riforme fallite.
Si prenda a titolo d’esempio il Titolo V sui rapporti fra Stato e regioni. Licenziato nel 2001 dalla sinistra per impadronirsi della bandiera federalista sventolata dalla destra, oggi è orfano. Scriveva bene Giovanni Sartori nel 2003: «Il genio italico predilige il bricolage, l’arlecchinismo costituzionale, e approda così all’invenzione di bastardi senza capo né coda». Ainis esamina alcuni dei sistemi più conosciuti di presidenzialismo o semi-presidenzialismo in Occidente. In primo luogo, gli Stati Uniti, dove l’investitura diretta popolare giustifica il maggiore peso del presidente americano e il suo ruolo di comandante in capo. In Francia, nel 1962, si giunse all’elezione diretta del Presidente. E Charles De Gaulle rifiutò di chiedere il voto del parlamento, nonostante la Costituzione lo obbligasse a farlo. Presentò quindi la sua proposta agli elettori. Quanto all’Italia, la stagione delle grandi riforme pare essere alle spalle.
Tramite un doppio referendum, Mario Segni aveva introdotto l’era del maggioritario, instaurando una “Seconda Repubblica” sulla Costituzione della Prima. Meloni è capo di un partito presidenzialista da sempre. Ma «difficilmente gli italiani sarebbero d’accordo, nel referendum costituzionale che prima o poi metterà ai voti la riforma», scrive Ainis. Che non omette di ricordare come le istituzioni italiane siano in crisi da decenni. Il che renderebbe difficile un ridisegno in chiave presidenzialista. Il Parlamento è svuotato di prestigio, le regioni sono fabbriche di posti, la magistratura è screditata. «Morale della favola: se in questo paesaggio disastrato s’introduce un colosso (il presidente eletto con voto popolare), lui finirà per schiacciare tutti gli altri, trasformandosi in tiranno anche se non vuole. Morale-bis: il premierato non può declinarsi in solitudine, ma s’accompagna giocoforza alla riforma delle altre istituzioni». Tuttavia, il presidenzialismo avrebbe anche dei vantaggi.
La stabilità, certo, ma anche – si suppone – l’efficienza. La questione della sovranità popolare sarebbe tenuta di conto – dal momento che il presidente riceverebbe un’investitura popolare. E in più, «il giorno del giudizio coincide con le elezioni: se non hai mantenuto le promesse, se hai governato male, non avrai più il mio voto». Quanto agli svantaggi, la stabilità del governare a lungo potrebbe rappresentare un problema. E se il presidente risultasse impopolare? O disonesto? Come si potrebbe rimuovere? Già Raymond Aron (L’ombre des Bonaparte) scrisse che un presidente eletto potrebbe accumulare troppo potere, favorendo una deriva cesarista. Il presidenzialismo potrebbe sostituire l’elezione il plebiscito, come quello utilizzato da Napoleone Bonaparte per farsi proclamare Console a vita, il 2 agosto 1802. O come il referendum con cui De Gaulle, nel 1958 e poi ancora nel 1962, impose il governo solitario del presidente eletto.