Gli interrogativi sul mondo e sulle diseguaglianze di Judith Butler

Il libro Che mondo è mai questo? (Laterza 2023) di Judith Butler inizia dalla pandemia di Covid-19 per raccontare un mondo sempre più perso e smarrito. Un mondo di interconnessioni, fatto di forme di partecipazione e di appartenenza, ma lontano da un’idea di mondo comune condiviso. Un mondo nel quale ci sono diseguaglianze anche in materia vaccinale. L’idea di senso globale del mondo, spiega Judith Butler, dovrebbe essere sorretta dalla comune situazione immunologica. La pandemia è stato un grande livellatore sociale. Ha agito per mezzo della popolazione del pianeta – è stata ovunque, da qui “pan”. Impossibile arrestare il virus, visto che viaggia attraverso i corpi. La filosofa vede alcuni punti positivi del virus a livello sociologico. Esso ci avrebbe distolto dal nostro “ego”, dalle nostre identità. Speranza e disperazione si sono connesse, ma quello che più è stato dimostrato è stata la vulnerabilità umana resa massima dal virus.
«L’obiettivo non è difendersi da ciò che è estraneo […], piuttosto […] trasformare l’interazione affinché il corpo possa coabitare con ciò che è nuovo, ospitandolo anche in sé […]. Il mondo non è solo qualcosa che sta là fuori; […] è ciò che incorpora quotidianamente in sé, suggerendo dunque una connessione vitale con il mondo stesso». L’emergere del virus ha trasformato alcuni aspetti del mondo in oggetto di indagine. Ci sono molti limiti del mondo che non conoscevamo, scrive Judith Butler, anche se oggi il mondo non ci pare un luogo più accogliente. L’autrice parte dalle riflessioni di Max Scheler e Edmund Husserl sui sensi del mondo e la sua reale composizione. Si interroga sul come rendere vivibile la vita sul pianeta. «La vita è tutt’altro che vivibile», date le condizioni di povertà, incarcerazione, indigenza, violenza sociale e sessuale.
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«Se il Mondo diventa inabitabile, allora significa che la distruzione ha preso il sopravvento». La distruzione della Terra, nell’ottica di Butler, è alla base del cambiamento climatico. La soluzione potrebbe essere quella di limitare le attività e le operazioni degli esseri umani. «Abitare in un mondo è parte di ciò che rende vivibile la vita. Ciò significa che non possiamo separare nettamente la questione della vivibilità del mondo da quella della vivibilità della vita». Inoltre, «se scegliamo di vivere le nostre vite umane senza porre dei limiti alla nostra libertà, il godimento di queste libertà diventa possibile a spese della nostra stessa vivibilità». Altre analisi sul mondo le ha condotte Maurice Merleau-Ponty, secondo il quale il problema non è che il mondo sia strutturato in modo tale che io possa conoscerlo. Il problema è che io, in quanto corpo, solo già parte del mondo che tento di conoscere.
È essenziale preservare la vivibilità, che induce a riflettere sui bisogni veri della vita, tra i quali la sostenibilità e la persistenza. Ma è un errore sostenere che l’individualismo sia la fonte di tutti i mali della Terra. Judith Butler, in grande compagnia, sembra dare spago alle tesi marxiste del superamento del capitalismo addebitando la colpa del mondo rotto solo al sistema economico. «Se il reddito fosse garantito, infatti, nessuno per vivere dovrebbe svolgere un lavoro nocivo per la propria salute. La vita vissuta con l’ansia costante per un lavoro mortificante non è una vita vivibile. […] La pandemia, di conseguenza, si svolge […] nel contesto di un’economia capitalistica che continua a considerare indispensabile la vita di chi lavora». Sempre sul fil rouge della pandemia e delle sue conseguenze, l’autrice parla delle condizioni imposte dalla pandemia sul lavoro che accelererebbe la realtà della morte.
Secondo l’autrice sussisterebbe una malafede insita da parte dei decisori politici che hanno calcolato costi e benefici del cosiddetto ritorno alla “normalità” nel 2021-2022. Costoro, sostiene Judith Butler, sapevano che molte persone sarebbero morte ad esempio in situazioni come il carcere, dove il distanziamento sociale è un privilegio. Ma l’autrice sbaglia ad adottare una visione complottistica secondo cui i governanti hanno fatto un bieco calcolo, anche perché – ad un certo punto – “riaprire” l’economia era una questione, quella sì, di vita o di morte. Poi questo passaggio abbastanza grottesco: «abbiamo preso forse un grande abbaglio quando abbiamo pensato che la pandemia […] avrebbe costituito l’occasione per immaginare forme radicali di eguaglianza sostanziale e giustizia sociale». L’autrice parla di un alibi di ferro per far ripartire l’economia e intravede livelli irragionevoli accettabili di contagio e di mortalità.
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«Se alla preoccupazione per il mondo si sostituisce la preoccupazione per l’economia […] e se si percepisce l’economia stessa come un corpo che rischia di ammalarsi o di morire, la nostra più grande responsabilità diventa quella di rimetterci al lavoro […] e poco importa se ciò favorirà i contagi». L’autrice è in errore quando si riferisce all’idea – da provare – secondo cui le vite di chi lavora siano superflue. Ella non sembra rendersi conto del fatto che le persone non avevano scelta se lavorare o meno. Potevano decidere però se essere responsabili o meno. E dunque essere proni o meno all’uso di mascherine, per esempio. Ma nella critica di sinistra radicale, a cui Judith Butler si ascrive, non si contempla la possibilità degli esseri umani possano scegliere di essere responsabili e liberi di fronte a situazioni difficili.
Giusto criticare un certo tipo di estrattivismo e la produttività. Ma nel lungo termine, senza produttività o lavoro non si campa. E i più svantaggiati saranno i meno abbienti o quelli toccati maggiormente dalle cosiddette diseguaglianze sociali. Tutto questo non rientra nell’analisi dell’autrice. Judith Butler sogna lo smantellamento dell’individualismo, parole sue. Poi però fa marcia indietro: nega la rinuncia dell’io e della propria singolarità. E spiega che «l’egoismo non può più costituire il fondamento di un’etica». «Se vogliamo riparare il mondo […] dobbiamo liberarlo dalla morsa dell’economia di mercato che specula e trae profitto dalla distribuzione diseguale della vita». Promuovere l’eguaglianza radicale speculando sulle dimensioni “egualizzanti” del virus e ascrivere al capitalismo vita e morte delle persone sembra essere anche eccessivo per una filosofa anticapitalista come Judith Butler.