La speranza e le quattro Americhe di George Packer
La fine del declino dell’America dipende dagli americani: è questa la tesi principale in L’ultima speranza (Mondadori 2023) di George Packer. Il modello americano, per decenni faro dell’Occidente, sembra essersi inceppato. «Eppure, la nostra civiltà, tenacemente, resiste. Ho la sensazione che un Paese tanto grande e potente potrebbe andare avanti così per sempre, senza crollare né cambiare rotta. […] L’America può attraversare […] proteste di massa, uragani, incendi violenti, scandali senza fine, elezioni da cardiopalma, turbini di menzogne, ma Netflix sforna comunque una serie nuova ogni settimana, i genitori continuano a pagare fior di quattrini a insegnanti privati […], il Black Friday quest’anno farà incassi da record». L’America è sempre stata più grande della somma delle sue contraddizioni. «Noi americani di solito siamo troppo confortati dal nostro credo infallibile e troppo distratti dal bagliore delle novità per guardare seriamente a noi stessi». Il volume parte dal 2020, un anno cruciale.
Fu il momento in cui l’America sopraffatta dal Covid-19 mise in forse il suo ruolo di faro delle nazioni libere. L’anno è iniziato con un impeachment contro Donald Trump. Si è chiuso con il suo tentativo golpista e insurrezionalista di sovvertire i risultati elettorali. Per Packer, l’ultimo giorno del 2020 è stato il 6 gennaio 2021, che segnò il trionfo di un’America instabile, lacerata, con istituzioni vacillanti, una popolazione divisa in tribù e incline alla violenza. George Packer alterna passato e presente, guidando il lettore lungo un percorso logico e chiaro, senza risparmiare critiche nei confronti Trump. Ciarlatano e demagogo, «Mark Twain lo avrebbe riconosciuto all’istante. È uscito dalla stessa fogna dorata che ha generato altre celebri creature della nostra cultura trash: guru degli investimenti, conduttori di talk show, predicatori del Vangelo della Prosperità, casalinghe televisive chirurgicamente rifatte, rapper con il culto dei gioielli».
Le vittime del Covid-19 sono in parte da attribuire ai governanti che hanno comunicato in modo errato. Gli Stati Uniti sono rapidamente diventati leader mondiali per quanto riguarda infezioni e decessi. Il crollo è iniziato dall’alto. Come la Francia nel 1940, l’America nel 2020 è stata colta da un crollo che andava oltre la responsabilità del singolo leader. Nessuno sapeva come reagire di fronte al Covid-19. «Sembrava di vivere in uno Stato fallito». La classe politica ha affrontato la crisi in modo incoerente e il comportamento dei decisori di allora è stato dannoso. Si è dunque rafforzato, scrive George Packer, quel riflesso mentale nella mente delle persone per cui si ha associato i funzionari pubblici alla corruzione dilagante del governo. Trump aveva interesse solo per sé stesso e per il proprio potere. Poi la situazione gli sfuggì di mano.
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«Un istinto profondo gli diceva che la cosa migliore che poteva fare per sopravvivere era dividere il Paese. Aveva puntato la sua breve carriera politica sulla facilità degli americani di mettersi gli uni contro gli altri […]. Con il suo talento infallibile nel fomentare l’odio […] ha cominciato a irridere l’uso delle mascherine». La mascherina diventò un segno distintivo: la sua presenza o assenza indicava se una persona fosse repubblicana o democratica. Ammette George Packer: «Nei giorni peggiori del lockdown, provavo solo disprezzo per quelli come lui. Era gente irrazionale, criminalmente egoista. Quando sbraitavano di diritti individuali, significava che erano arrabbiati perché non potevano uscire a fare barbecue e bere birra, o a rifarsi la tinta dal parrucchiere. E cosa gli importava poi della libertà? Avevano consegnato la loro nelle mani di Trump». Il virus è stato un grande equalizzatore sociale.
E questo era il messaggio delle autorità sanitarie e del virus stesso. La mancanza di solidarietà ha trasformato ogni sfida della pandemia in una crisi all’interno della crisi, sostiene Packer. Ciò ha contribuito ad aumentare il livello generale di sfiducia. Successivamente, l’assalto al Campidoglio: il presidente ha dichiarato ai suoi sostenitori che ci sarebbero state frodi elettorali su vasta scala, incitando i più estremisti a invadere il Campidoglio. Ha nominato un nuovo giudice della Corte Suprema come asso nella manica dell’ultimo minuto. «La democrazia si basa sulla fiducia nella democrazia, su uno straordinario atto di fede da parte delle persone comuni nel fatto che i loro governanti rispetteranno le regole, che i loro voti conteranno, che i loro connazionali non distruggeranno il Paese, che le menzogne non diventeranno la verità».
La seconda parte del volume George Packer affronta le quattro Americhe. Inizia con un’analisi dei problemi principali. Pochi potenti si sono accaparrati ciò che restava del capitalismo; il mondo è stato travolto da cambiamenti vasti, lasciando dietro di sé nuovi gruppi di vincitori e perdenti; un partito è scivolato nell’estremismo, trascinando con sé metà della nazione; l’altro partito si è frammentato in vari gruppi; le élite bipartisan hanno tradito i concittadini più poveri; infine, gli americani si sono abbandonati a un egocentrismo folle che è perdurato per mezzo secolo. «La disuguaglianza ha minato la certezza comune che gli americani abbiano bisogno di creare una riuscita democrazia onninclusiva. L’era postindustriale ha concentrato il potere politico ed economico nelle mani di pochi e tolto alla gente comune il controllo della propria vita».
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Ancora: «Noi americani non riusciamo più a pensare e ad agire come cittadini di uno stesso Paese. Cerchiamo risposte in panacee private, idee fisse, identità di gruppo, sogni futuri e passati, salvatori di vario tipo: ovunque tranne che in noi stessi. E poiché nulla di tutto questo ci rende liberi, ce la prendiamo gli uni con gli altri». Le narrazioni più durature, sostiene Packer, non sono quelle che resistono meglio alla prova dei fatti. Inizia con la prima America, la Free America, che negli ultimi cinquant’anni è stata la più potente delle quattro. Questa si basa su idee libertarie, integrate nel motore del capitalismo consumistico, con la libertà al primo posto. Questa narrazione ha radici poco prima della presidenza di Ronald Reagan. Tradizionalista, individualista, basata su Edmund Burke, in opposizione a John Dewey. È anticomunista e guarda alla democrazia con scetticismo, coinvolgendo i libertari contrari all’eccessiva burocrazia.
Nel loro insistere sulla libertà, potevano vantare di essere i discendenti di John Locke e Thomas Jefferson. Elogiavano Grover Cleveland e Calvin Coolidge. I libertari più influenti erano europei, soprattutto Friedrich von Hayek, il cui testo contro il collettivismo, La via della schiavitù, divenne un caso editoriale nell’America del 1944. Nelle parole di Hayek: «La pianificazione porta alla dittatura». L’obiettivo del governo è dunque garantire i diritti individuali e poco altro. Barry Goldwater si oppose al disegno di legge sui diritti civili per preservare l’autonomia degli Stati. «L’estremismo in difesa della libertà non è un vizio!», tuonò alla convention repubblicana, prima di perdere contro Lyndon B. Johnson. In questo ambito rientrano anche figure come Ayn Rand. George Packer evidenzia come lo speaker della Camera Paul Ryan, che aveva letto La rivolta di Atlante, abbia applicato la filosofia spietata dell’egoismo dell’autrice alla politica del Campidoglio.
Il libertarismo si basa sul mito americano dell’uomo fatto da sé e del pioniere solitario delle pianure, caratterizzato da una glorificazione della figura maschile. Gli americani adottarono il libertarismo. Il nazionalismo permeò la Free America, con il capitalismo consumistico che divenne sinonimo di libertà individuale. La potenza degli Stati Uniti fu vista come una crociata globale per la democrazia. Irving Kristol è considerato il padre del neoconservatorismo. Packer osserva che la qualità dei leader della Free America è peggiorata nel tempo. «La narrazione della Free America è rimasta inflessibile come qualunque ideologia: sgravi fiscali e deregulation uguale libertà e benessere». Gli anni da Reagan in avanti sono stati caratterizzati da stagnazione salariale e crescenti disuguaglianze, con immense fortune accumulate tra gli strati più alti e vaste aree del Paese che hanno perso industrie e attività indipendenti.
Si arriva alla seconda America, la Smart America, i cui individui sono a proprio agio in un mondo creato dalla modernità, credono nel flusso transnazionale di persone, informazioni, merci e capitali e non si considerano nazionalisti. Sostenitori della sicurezza sociale per i più poveri, ritengono che ci debba essere un limite all’intervento statale. Una citazione di rilievo in questa America è il libro L’avvento della meritocrazia di Michael Young. Questa America trova rappresentazione in figure come Bill Clinton e Barack Obama. La meritocrazia sembra essere l’unico sistema in grado di rispondere alla passione americana per l’uguaglianza, basandosi sull’idea di giustizia. L’inizio del nuovo millennio ha segnato l’apice della Smart America. Concetti come libero scambio, deregolamentazione, concentrazione economica e pareggi di bilancio sono diventati parte della politica del Partito Democratico, con una classe di donatori provenienti da Wall Street e dalla Silicon Valley.
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Passando alla Terza America, la Real America, il riferimento principale è Sarah Palin e successivamente Trump. La Real America è un concetto risalente al diciottesimo secolo, quando l’idea che il cuore della democrazia batta più forte nelle persone comuni che lavorano con le proprie mani era fondante nel credo dell’uguaglianza. Questa visione si basa sul trionfo della democrazia popolare, sull’ostilità verso l’aristocrazia e sul principio che fare soldi non viola lo spirito dell’uguaglianza. La Real America è stata storicamente un Paese a predominanza bianca. È rappresentata da Andrew Jackson e si riflette negli agricoltori, meccanici e operai che sono considerati i precursori dei redneck di George Wallace, della brigata del forcone di Patrick Buchanan e dei laboriosi patrioti di Palin. La narrativa della Real America spesso mette l’operaio industriale in contrasto con un’élite parassitaria.
Scrive George Packer: «Non è una città splendente su una collina che spalanca le porte a tutti gli amanti della libertà. Né un club cosmopolita dove i giusti talenti e le giuste qualifiche permetteranno a una persona di entrarvi indipendentemente da dove si trova o da dove viene. È un paesotto di provincia dove tutti sono a conoscenza degli affari altrui, nessuno ha molti più soldi rispetto agli altri, e solo pochi disadattati se ne vanno via». Successivamente alle esperienze in Iraq, Afghanistan e alla crisi finanziaria del 2008, lavoratori statunitensi comuni si trovavano in uno stato di indigenza. Le istituzioni bancarie, d’altro canto, ottenevano finanziamenti di salvataggio. La deduzione risultava evidente, prosegue George Packer: il sistema era manipolato a favore degli addetti ai lavori. È stato necessario un individuo come Trump per metterlo esplicitamente in luce: parlare delle persone dimenticate del Paese.
Chi è Trump? Un fascista? Un nazionalista bianco? Un narcisista spietato? Un conservatore sgarbato? Sono interrogativi legittimi. In un certo senso, tutti sono veritieri. Tuttavia, Packer scrive: «Ma “fascista” lo situa in un modello ideologico che non si merita. Se Trump fosse un fascista, avrebbe usato la pandemia per prendere il controllo dell’industria, sospendere le libertà individuali e imporre un regime di stretta sorveglianza. Nel fascismo, il capitalismo è al servizio dello Stato. I fascisti erano un’avanguardia del futuro. Fomentavano energie collettive per idealismi nazionali». Il linguaggio di Trump era efficace perché era sintonizzato sulla cultura pop americana. Generava frasi memorabili: «Make America great again», «Drain the swamp», «Build the wall», «Lock her up». Usava il linguaggio terra terra di programmi radiofonici, reality show, social e bar. «Nazionalista bianco» è una definizione migliore.
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George Packer ricorda che, durante il corso della sua intera esistenza, Trump ha manifestato ostilità nei confronti delle persone di colore, disprezzo verso le donne, comportamenti violenti nei confronti degli immigrati e crudeltà verso i più vulnerabili. Si schierava apertamente al fianco dei razzisti più inflessibili. Quello che era iniziato con Palin si è concretizzato con Trump. Vi è poi una quarta America, un Paese di immigrati; l’America alla guida del mondo libero. Quella di Rosa Parks che ha rifiutato di alzarsi o di Martin Luther King che predicava la tolleranza. È la Just America. Se la Real America si oppone al libertarismo fossilizzato della Free America, la Just America attacca la meritocrazia autocompiacente della Smart America. La Just America si batte contro le ingiustizie e l’oppressione.
Oggi questa America si identifica con le teorie critiche estremiste woke. Eppure, la Just America non si occupa solo della questione razziale. Secondo George Packer, è emerso un linguaggio nuovo: razzismo sistemico, suprematismo bianco, privilegio bianco, anti-blackness, comunità emarginate, decolonizzazione, mascolinità tossica, non binario, transfobia. La Just America rappresenta una narrazione portata avanti da individui giovani e ben istruiti, ma la loro disillusione verso il capitalismo liberale ha dato vita alla politica identitaria. In conclusione, «la Free America celebra l’energia dell’individuo libero. La Smart America rispetta l’intelligenza e abbraccia il cambiamento. La Real America è vincolata a un luogo e ha un senso dei limiti. La Just America chiede un confronto con ciò che le altre vogliono evitare».
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Nella Free America, i vincitori sono gli artefici, mentre i perdenti sono i beneficiari. Nella Smart America, i vincitori sono coloro che hanno ottenuto meritoriamente qualifiche, mentre i perdenti sono coloro meno istruiti. Nella Real America, i vincitori sono i lavoratori delle zone bianche e cristiane, mentre i perdenti sono le élite. Nella Just America, i vincitori sono gli emarginati, mentre i perdenti sono i gruppi dominanti. Quindi, da un lato abbiamo la Smart America e la Just America, dall’altro la Free America e la Real America. «C’è più violenza. Siamo famosi per questo. Moltissimi mali della vita contemporanea americana, dalla criminalità di strada alle sparatorie di massa, dalle violenze della polizia alla barbarie del nostro sistema carcerario, affondano le radici in due caratteristiche della storia statunitense […]: la schiavitù e la frontiera, il controllo brutale di una parte della popolazione e lo sterminio quasi totale di un’altra».
Un rischio dell’uguaglianza è l’atomizzazione. George Packer suggerisce che è necessario un radicale rinnovamento per rifare l’America. «La disuguaglianza distrugge il senso di cittadinanza comune, e con esso la capacità di autogoverno». Il rischio di una aristocrazia ingovernabile è reale. Certo, «potremmo dare più potere agli esperti per governarci meglio, ma diventeremmo ancora meno capaci di autogovernarci e finiremmo sotto il dominio di un altro demagogo». L’autore concludere su una nota ottimista: non crede che l’America stia morendo. Al contrario, sostiene che deve trovare la forza per diventare un faro di ispirazione per il mondo libero. «La maggior parte di noi vuole ancora la nostra democrazia». Eppure: «Le nostre istituzioni hanno subìto uno shock tremendo, ma sono sopravvissute […]. Il razzismo fa parte del nostro Dna, e un numero sufficiente di americani esalta o tollera questo male». Tuttavia, si evitino illusioni: i demagoghi che capitalizzano sull’odio ci saranno sempre.