La price theory e il neoliberismo: storia della Scuola di Chicago
La Scuola di Chicago (IBL libri 2023) di Nicola Giocoli alterna storia ed economia, narrativa ed aspetti tecnici per ricordare come il dipartimento di economia della città sul lago Michigan giocò (e gioca) un ruolo cruciale nell’economia contemporanea. Al 2022, ben tredici membri della Scuola hanno ricevuto il Premio Nobel per l’economia: tra loro Paul Samuelson (1970), Kenneth Arrow (1972), Friedrich von Hayek (1974) e James Buchanan (1986), le cui idee sono state ritenute corresponsabili delle politiche economiche attuate negli anni Ottanta nel mondo anglosassone, adottate in altre nazioni, specialmente in America Latina e nell’Europa orientale. Se alcuni guardano alla Scuola come superata, altri la vedono ancora come una fonte di risultati significativi e idee da sviluppare. Per alcuni rimane una guida per interpretare i rapporti tra Stato e mercato. Altri, ancora, la vedono come una presenza dannosa.
Ciascuna di queste valutazioni contiene un elemento di verità. Storicamente, la Scuola di Chicago comprende due fasi distintive. La prima fino al 1925. La seconda è dominata da figure come Milton Friedman e George Stigler. E si contrappose alle teorie della domanda aggregata di John Maynard Keynes e alla teoria della concorrenza monopolistica di Edward Chamberlain. All’università di Chicago hanno trovato spazio molti economisti. Coloro che provenivano dal Mit o da Harvard e si trasferivano a Chicago rimanevano piacevolmente sorpresi dall’atmosfera aperta al dibattito. Giocoli la descrive come un club con regole di ammissione chiare, ma rigide. Tra i criteri: conoscenza impeccabile della teoria economica, capacità di applicare questa teoria a questioni quotidiane e ricerca di validazione empirica. L’autore analizza le biografie degli economisti della Scuola di Chicago: Frank Knight, Jacob Viner, Henry Calvert Simons, Aaron Director, Ronald Coase, Gary Becker, Robert Lucas e Richard Posner.
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Una parte significativa del volume è dedicata alla price theory, il nucleo teorico della Scuola. Essa rappresenta gli strumenti analitici necessari per spiegare, misurare e predire i comportamenti economici dei consumatori. La teoria mostra come i mercati tendano spontaneamente a spiegare il funzionamento del mercato e la formazione dei prezzi di equilibrio, con obiettivi coerenti tra compratori e venditori. La versione più recente della teoria, sviluppata da Becker, si differenzia per l’enfasi maggiore data alla scelta razionale. Mentre nelle prime due generazioni di Chicago i prezzi rappresentano l’output dell’analisi dei mercati, per Becker essi sono anche un input per le scelte razionali individuali. Secondo Giocoli, la concorrenza potenziale incarna la fiducia che i policy makers dovrebbero avere nella capacità degli incentivi di mercato di promuovere il benessere collettivo.
«La concorrenza potenziale vale dunque non solo nel mercato, ma anche per il mercato, a indicare che anche le imprese che conquistano ampie quote di mercato in virtù della superiore qualità dei propri prodotti o servizi […] non possono mai dormire sonni tranquilli a fronte dell’operare incessante del meccanismo concorrenziale». Inoltre, «dai principi della price theory discendono due altre dottrine caratteristiche della Scuola: la sole value thesis e il rifiuto della environmental theory. Con quest’ultima espressione si intende l’idea che lo sviluppo delle teorie economiche avvenga come reazione a problemi contingenti o eventi sociali». Per quanto riguarda la politica monetaria, Rudi Dornbusch sottolinea che la Chicago economics è stata costruita su due pilastri. Ovvero, la teoria dei prezzi e la teoria monetaria. Durante almeno tre decenni a partire dagli anni Ottanta e fino alla crisi finanziaria del 2007-2008, le autorità di politica monetaria hanno aderito ai principi della Scuola di Chicago.
Tuttavia, vi sono controversie sull’uso delle politiche monetarie, come riassunto da Giocoli. «Da un lato, rispondere alle crisi economiche con politiche monetarie espansive attuate non con operazioni di mercato aperto […], ma direttamente con la monetizzazione della spesa pubblica anticiclica. Dall’altro, proteggere la stabilità del sistema, soprattutto del livello generale dei prezzi, mediante una gestione ordinaria rigorosa della politica monetaria». L’ultima parte del libro affronta l’epoca del neoliberismo e del Washington Consensus. Secondo Giocoli, tra il 1975 e il 2000, la prospettiva orientata verso l’amministrazione dell’economia attraverso l’intervento statale e la regolamentazione pubblica viene sostituita da un approccio che privilegia le soluzioni di mercato. Con uno Stato il cui ruolo si riduce a facilitare il funzionamento del mercato. Imprese precedentemente nazionalizzate subiscono processi di privatizzazione, i servizi forniti dallo Stato vengono esternalizzati a entità private. E i bilanci pubblici vengono ridotti mediante politiche fiscali accompagnate da tagli alla spesa.
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Nel 1990, l’economista del Fmi, John Williamson, coniò il termine Washington Consensus per indicare dieci riforme che i Paesi in via di sviluppo avrebbero dovuto adottare come condizioni necessarie per il progresso economico. Questa lista includeva liberalizzazioni degli scambi internazionali, deregolamentazione, privatizzazioni, disciplina del bilancio. Le ultime pagine ritornano alla prima parte del secolo, la parte più interessante. Furono gli austriaci che gettarono le basi per la Scuola di Chicago. Hayek spiegò che qualsiasi forma di pianificazione rifiutava la possibilità di una terza via tra capitalismo e socialismo, sviluppando il famoso argomento della conoscenza. Ripercorre Giocoli: «Per funzionare, il calcolo economico razionale richiede […] la conoscenza complessiva dei diversi fini a cui aspirano tutti gli individui […], conoscenza che nessun singolo agente, neanche il pianificatore, può possedere in anticipo perché si rivela solo attraverso la partecipazione al mercato».
Difatti, «solo il mercato può raccogliere ed elaborare in modo efficiente la conoscenza di cosa, quanto e come produrre e dei desideri e preferenze di milioni di individui perché solo attraverso la partecipazione al mercato tale conoscenza viene in essere. dato che il mercato opera questa funzione in un modo talmente complesso che nessun pianificatore […] potrà mai davvero comprendere e tantomeno riprodurre, è razionale astenersi il più possibile dall’interferire con il mercato stesso nel tentativo di replicarne o migliorarne gli esiti». Il meccanismo impersonale e anonimo del mercato produce risultati che sono superiori dal punto di vista dei benefici economici rispetto a quelli di qualsiasi possibile forma collettiva e consapevole di pianificazione sociale. Nel 1938, Walter Lippmann istituì il famoso Colloquium, al quale parteciparono anche Hayek e Ludwig von Mises.
Qui fu coniato il termine neoliberalismo su intuizione dell’economista tedesco Alexander Rustow. Molti dei partecipanti concordarono sul fatto che il laissez-faire ottocentesco aveva fallito di fronte al totalitarismo e alla pianificazione. Tra le delibere più significative, «la Grande Guerra ha però mostrato la potenza degli stati moderni. Occorre dunque volgere tale potenza non contro il liberalismo, ma a suo favore, usandola per proteggere e promuovere il libero mercato». Nacque così il neo-liberalism. Conclude Giocoli: «Per i neoliberali non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato o insoddisfacente nel funzionamento e nei risultati del libero mercato». Per i neoliberali, lo Stato ideale limita al massimo le interferenze nella vita dei cittadini. E al contempo garantisce il diritto ragionevole alla libertà individuale e alle scelte private.