Il merito nelle scuole e i dibattiti sull’uguaglianza

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In libreria con La rivoluzione del merito (Rizzoli 2023), Luca Ricolfi analizza perché il merito è assurto a grande colpevole nell’era moderna. Particolarmente a sinistra si è abbandonato il concetto di merito e di meritocrazia. «Premiare i “capaci e meritevoli” non piace perché, sotto sotto, si pensa che i loro successi siano frutto di privilegi: una famiglia benestante, un carattere robusto, doti naturali ricevute alla nascita. E poi perché si pensa che ogni riconoscimento dei migliori sia fonte di umiliazione per tutti gli altri, o susciti ansia e stress, o conduca a forme di competizione “tossiche”». Si giunge così a vere e proprie battaglie contro il merito giacché, sostengono i detrattori, le capacità individuali non sono meritate. Premiare in merito vuol dire premiare chi parte da basi socioeconomiche solide. E umiliare ed escludere i non premiati, si dice.

«Il talento e l’impegno non si distribuiscono lungo linee di classe, visto che l’uno dipende dalla natura […], l’altro dalla responsabilità individuale. […] Il talento e l’impegno del singolo portano benefici a tutti […] che proprio il fatto che la società riconosca il merito crea una potente spinta a coltivare i propri talenti e a impegnarsi per affinarli». Il fil rouge di Ricolfi è l’articolo 43 della Costituzione italiana. Procedendo negli anni, l’autore esamina la caduta del concetto di merito a partire dall’inizio della Storia repubblicana. Nel febbraio 1950 a Roma si svolse il terzo Congresso dell’associazione per la difesa della scuola nazionale e intervenne Piero Calamandrei, che per l’occasione disse: «Ogni classe, ogni categoria deve avere la possibilità di liberare verso l’alto i suoi elementi migliori». Premiare il merito è salutare per la democrazia. Tuttavia, occorre riconoscere che la nozione di democrazia applicata al settore scolastico presenta falle.

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«La prima è di inflazionare i titoli di studio, a tutto vantaggio dei ceti alti. Se, anche a causa dell’abbassamento degli standard, per fare un mestiere per cui bastava la licenza media occorre il diploma, per fare un mestiere per cui bastava il diploma occorre la laurea, per fare un mestiere per cui bastava la laurea occorre il dottorato di ricerca, allora la lunghezza del percorso di studi si allunga, e con essa il costo che le famiglie devono sostenere. Un costo che non costituisce un problema per i ceti alti, ma può diventare proibitivo per le famiglie meno abbienti». Secondariamente, il grosso degli abbandoni avviene entro i due anni dell’università. «Avendo abbassato gli standard della licenza media, una parte non piccola dei ragazzi arriva in prima superiore senza la preparazione necessaria». E verosimilmente non avrà dunque le basi per seguire un percorso universitario.

Questo «danneggia tutti, ricchi e poveri, ma solo i ricchi hanno a disposizione gli strumenti per correre ai ripari». Ricolfi sostiene che la scuola di ieri era molto più selettiva di quella di oggi. A conseguire la maturità arriva l’ottanta per cento dei ragazzi contro il trenta di mezzo secolo fa. «Le promozioni facili nella scuola dell’obbligo si pagano con gli abbandoni massicci nel biennio della scuola secondaria superiore e nei primi anni di università». Ricolfi ripercorre anche la pedagogia controversa di don Lorenzo Milani, secondo il quale solo la cultura popolare, fatta di esperienza pratica, aveva valore. Con la Lettera a una professoressa, il sacerdote affermava che la scuola deve insegnare cose utili della vita – quindi la cultura sarebbe uno strumento per l’umiliazione dei poveri. Latino, filosofia, letteratura, matematica andrebbero ridotti al minimo, giacché i voti e le bocciature sarebbero strumenti dei ricchi per escludere i poveri. Tesi ardite.

Ricolfi condanna l’idea per cui «la scuola dell’obbligo non può bocciare». Tesi che è stata fatta propria specialmente dalla sinistra. La cultura vista come uno strumento del potere, di certo non utile a elevare ed emancipare i ceti popolari. Il vizio di abbassare l’asticella proviene anche da don Milani. Dal quale «proviene un’altra idea che ha devastato la scuola degli ultimi decenni: l’idea che gli insegnanti fossero dei nemici di classe». Di don Milani però la classe dirigente del Paese, che ha sposato le sue tesi, ha dimenticato il resto. «A Barbiana si studiava dieci ore al giorno, sette giorni la settimana, per tutto l’anno. Niente vacanze, niente feste, niente giochi, niente ricreazione, niente cedimenti al consumismo, alle mode, al divertimento. Don Milani era indignato di quanto poco si studiasse nella scuola pubblica». Per don Milani bocciare un alunno della scuola dell’obbligo era non solo umiliante, ma inefficiente.

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«Il doposcuola è una soluzione più giusta. Il ragazzo ripete, ma non perde l’anno, non spende [in ripetizioni a pagamento] e voi [insegnanti] gli siete uniti nella colpa e nella pena», scrisse il sacerdote, che temeva l’ingresso precoce dei ragazzi nel mondo del lavoro. Ma «prima della Lettera, gli insegnanti pensavano sé stessi come investiti del compito di formare gli allievi trasmettendo cultura. Dopo Milani, hanno cominciato a sentirsi operatori di quella scuola di servizio sociale». Ricolfi analizza poi la questione eguaglianza-merito. «L’esigenza di neutralizzare le differenze dovute al talento conduce verso l’incubo egualitario». L’autore analizza da dove viene il termine “meritocrazia” e la definisce come una reazione alla trasmissione dei privilegi delle cariche in base alla famiglia di nascita. La meritocrazia è legata al concetto di pari opportunità. Le società si proclamano meritocratiche quando omaggiano le pari opportunità o l’eguaglianza dei punti di partenza.

Un altro elemento della società meritocratiche sono le istituzioni a cui spetta di assegnare posizioni sociali e retribuzioni. Non solo il mercato, ma anche le agenzie di valutazione che devono selezionare gli individui e valutarne le performance secondo criteri oggettivi e impersonali. «La pretesa di regolare porzioni importanti della vita sociale mediante i test, infatti, ha sempre una doppia valenza distopica: da un lato sottomette la vita sociale all’impero degli apparati di valutazione, dall’altro […] non si può mortificare il merito». La società meritocratica non è governata solo dal mercato, ma anche dalle burocrazie della valutazione, ricorda l’autore. L’etimologia di “meritocrazia”, coniato nel 1956 da Alan Fox, è “merere” (guadagnare). «Una società è meritocratica in quanto assegna potere al merito […]. Con una implicazione fondamentale: […] nella misura in cui ciascuno riceve quel che merita, le diseguaglianze sociali risulterebbero giustificate, quindi accettabili».

«Se le diseguaglianze crescono troppo, e vengono percepite come ingiuste, l’ideologia meritocratica non funziona più come legittimazione delle diseguaglianze […]. Più una società riesce ad accreditarsi come equa, più rende insopportabili i fallimenti individuali». Nel suo The Rise of Meritocracy del 1958, Michael Young sottolineava come il merito equivalesse alla somma tra quoziente di intelligenza e sforzo (effort), tradotto da Ricolfi in: m = IQ + E. Uno dei problemi di questo sistema è la divisione della società in classi. In una società meritocratica, gli individui ricevano quello che si meritano. Ne parla Friedrich von Hayek: «valori che il mercato attribuisce ai servizi lavorativi non rispecchiano meriti individuali, ma riflettono fattori come l’andamento dei gusti dei consumatori, l’eccesso o la scarsità di determinati talenti o determinate qualifiche, la sostituibilità reciproca di determinate abilità o di determinati beni di consumo, […] l’evoluzione della tecnologia», ricorda Ricolfi.

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Il mercato è un dispositivo per il coordinamento di produttori e consumatori. La sua funzione, ricorda Hayek, è emettere segnali su quello che gli acquirenti desiderano in un ordine spontaneo. «Come aveva ben visto Hayek, il progetto di fare a meno del mercato come meccanismo dominante di coordinamento dei piani di vita individuali conduce alla contrazione degli spazi di libertà, all’invasione della sfera privata, al sovvertimento della scala dei meriti di ciascuno». Alle tesi di Hayek si potrebbero contrapporre quelle di John Rawls, che con A Theory of Justice riconosce ad Hayek il concetto che le retribuzioni stabilite dal mercato non hanno un rapporto necessario col merito. Secondo Rawls, le opportunità di una persona dipendono da tre elementi: «lo status […] (o “lotteria sociale”), i talenti […] alla nascita (o “lotteria naturale”), l’impegno (lo “sforzo”)».

Secondo Rawls non è possibile seppellire ogni diseguaglianza, giacché questo comprometterebbe seriamente la libertà. La società cosiddetta “giusta” delineata dal filosofo «ha l’indubbio vantaggio di non compromettere irrimediabilmente la libertà, né di proiettarci in un inferno burocratico, come tendono invece a fare molte teorie della “società giusta”. Sul piano empirico […] l’unico vero costo dell’approccio di Rawls è di comportare un’elevata e pervasiva tassazione, con tutte le conseguenze che questo trascina con sé: più impedimenti all’attività economica, meno investimenti privati, meno senso di responsabilità personale». Investimenti nell’istruzione e prelievo fiscale progressivo dall’altro potrebbero attenuare gli effetti della lotteria. La guerra contro il merito è una guerra per l’eguaglianza sociale. Ricolfi ripercorre anche il concetto di eguaglianza nella letteratura del Novecento: da La fattoria degli animali di George Orwell a Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, fino a Harrison Bergeron di Kurt Vonnegut.

In conclusione, l’autore analizza anche la nozione di talento e i drammi qualora questo dovesse essere soppresso. «Il talento è un biglietto della lotteria che ti può cambiare la vita, e te la può cambiare tanto di più quanto più sei povero. Vogliamo cancellare la lotteria perché i biglietti vincenti potrebbero andare anche ai ricchi? Vogliamo togliere, a chi è capace e meritevole, ma povero, una delle poche opportunità di uscire dalla sua condizione?». Infine: «Con la guerra contro il merito noi stiamo alimentando l’invidia sociale, il risentimento, la frustrazione, il vittimismo. I cattivi sentimenti, come l’invidia, esistono. Sono da sempre in noi. Ma una civiltà è tale proprio in quanto riesce a contenere i sentimenti negativi, così come a frenare gli istinti più bassi […]. La civiltà […] è […] una macchina che trasforma la competizione in cooperazione, l’invidia in ammirazione».

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Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, classe 1997, MA in Relazioni Internazionali, BSc in Comunicazione, giornalista freelance, gestisce “Blackstar”, www.amedeogasparini.com