Taiwan, prove di una nuova guerra?
Taiwan è uno dei punti più caldi del pianeta: un possibile teatro di uno scontro tra la Cina e il mondo occidentale nei prossimi anni. Mentre Pechino si prepara a riprendere possesso dell’isola, una domanda sembra non aver ottenuto ancora risposta: come (e se) reagirà l’Occidente? Nel suo La guerra promessa (Solferino 2023) Danilo Taino stima molto alte le probabilità che questo secolo sia segnato dalla questione dell’ex isola di Formosa. Certo, Xi Jinping non ho ancora deciso quando sarà il momento di riunificare la Cina. In Occidente si crede che Pechino sarà tenuta a bada in qualche modo. Da oltre settant’anni Taiwan è trattata in Occidente come un’isola fantasma, congelata e sospesa. Una foglia appoggiata sui mari cinesi, scrive l’autore, che rimane un baluardo, quindi civiltà, un gioiello di democrazia e di tecnologia – negli anni, Taiwan ha infatti sviluppato un carattere unitario e autonomo.
Xi ha fissato per il 2035 il completamento dell’unificazione con la Cina continentale – la “madrepatria”. Il Dragone è intransigente sulla politica della Cina Unica; Xi intende riassorbire Taiwan per fare del Paese un vero potere globale rispettato dal resto del mondo, riscattato finalmente dal “secolo delle umiliazioni”. Portare l’isola sotto la sua leadership sarebbe il coronamento della sua carriera dopo che già è entrato nella storia nel 2018 per aver fatto eliminare dalla Costituzione il vincolo dei due mandati sui mandati della presidenza. Non risolvere la questione di Taiwan sarebbe una rinuncia umiliante per Xi. Anche perché da anni ha alzato le aspettative del partito e della popolazione cinese in oggetto a Taiwan. La caduta dell’isola, l’unica democrazia cinese, sarebbe un colpo fatale per la credibilità americana nella regione. Il Giappone riterrebbe dubbia la capacità degli Stati Uniti di garantirgli un ombrello di protezione e potrebbe sviluppare il suo potere nucleare.
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Stesso discorso per Seul, che in aggiunta vedrebbe quasi certamente incrementare l’aggressività di Pyongyang. Nuova Zelanda e Australia potrebbero trovarsi senza protezioni geopolitiche. Una maggiore presenza della marina comunista cinese nell’oceano Indiano potrebbe incrementare frizioni fino al Corno d’Africa, creando un periodo di instabilità nell’intera Asia. Il fronte di Taiwan è caldo, bollente; non è una questione isolata e slegata da conseguenze geopolitiche catastrofiche. Per capire meglio la posta in gioco e le complessità connesse alla regione, Taino ripercorre la storia dell’ex Formosa. Il trattato di Shimonoseki del 17 aprile 1895 prevedeva la cessione di Pechino a Tokyo al Giappone. I timori per un nuovo dominio imperiale, dopo quello dei Qing, erano forti. I giapponesi crearono uno stato di polizia, se non altro non corrotto come la Cina. L’isola ritornò alla Cina dopo il 1945. Mao Zedong riteneva i taiwanesi un popolo degradato.
Di converso, i formosani non avevano in grandissima simpatia i comunisti, dopo decenni di governo giapponese che aveva annullato ogni opposizione connessa al marxismo. Dopo la guerra civile conclusa nel 1949 con la conquista del potere da parte del Partito Comunista Cinese, Harry Truman cessò di appoggiare il nazionalista Chiang Kai-shek, che si rifugiò a Taiwan. Qui il capo del Kuomintang instaurò una dittatura personale. Quando nel 1950 la Corea del Nord invase quella del Sud, Truman mandò la Settima Flotta a pattugliare lo stretto di Taiwan per timore che Pechino approfittasse degli scontri per invadere l’isola. Chiang continuò a credere all’idea di una Cina Unica che avrebbe voluto nazionalista e anticomunista. Taino sottolinea come il Generalissimo gettò le basi per la costruzione di una società e una economia che oggi si sente lontana dal modello cinese continentale. Compì però anche una serie di scelte sbagliate per Taiwan.
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Chiang non costruì infatti una base popolare e incrementò il grado di corruzione del partito-Stato. Nel 1945 la Repubblica di Cina fu tra i fondatori dell’Onu e divenne un membro permanente del Consiglio di sicurezza. Secondo Washington, l’esclusione di Pechino nei consensi internazionali doveva essere mantenuta per un certo periodo, ma non perpetuamente. Dal 1949 la Cina è divisa in due: la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica di Cina, le cose cambiarono grazie alle aperture americane. Dopo i viaggi di Richard Nixon e Henry Kissinger, gli Stati Uniti optarono per instaurare relazioni con Pechino, mantenendo una politica di ambiguità con Taipei. Il Taiwan Relations Act del 1979 prevede che Washington si opponesse a soluzioni militari sulla disputa cinese. Nel 1971 Taiwan venne espulsa dall’Onu. E gli Stati Uniti instaurarono relazioni ufficiali con la Cina comunista. Succeduto al padre, Chiang Ching-kuo diventò presidente in un periodo di isolamento del Paese.
Il fatto di non essere democratico alienava le simpatie internazionali e la democratizzazione avvenne nel 1987 con un cambiamento strutturale. Nonostante i fatti di Tienanmen, gli Stati Uniti non voltarono le spalle alla Cina. Nel 1997 il presidente Bill Clinton visitò la Cina ed espresse i famosi Tre No: no a una Cina e una Taiwan, no all’indipendenza di Taiwan, no al ritorno di Taiwan alle organizzazioni internazionali. Sia Pechino che Taipei entrarono nella Wto nei primi anni Duemila. «Il destino di Taiwan è legato al futuro dei rapporti di potere nel mondo e al modello politico ed economico dei prossimi decenni del ventunesimo secolo: democratico e di libero mercato oppure autocratico basato sui muscoli economici», scrive Taino. Le operazioni americane in difesa della libertà di navigazione dello stretto di Taiwan sono frequenti. Taino si avventura in possibili simulazioni rispetto a una possibile invasione da parte di Pechino.
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Un attacco sarebbe un grave colpo per l’economia taiwanese. Una vera e propria invasione richiederebbe uno sforzo militare enorme sull’isola e necessiterebbe di migliaia di soldati impegnati per chissà quanto tempo. Pertanto, a fermare la marcia di Xi su Taiwan possono essere solo gli Stati Uniti. È opinione comune che senza le garanzie politiche che Washington ha fornito negli anni, pur non riconoscendo Taiwan, l’isola sarebbe già stata invasa da molto tempo. Oggi la Cina è entrata in una competizione esistenziale con Washington e dunque Taiwan è un fronte caldo. Non è chiaro se prevarrà il fatto di essere cinesi (con tutto quello che ne consegue a livello di cautela a livello internazionale) o il fatto di essere dei comunisti (che puntano all’egemonia in Asia). Xi sembra non avere dubbi sulla possibilità di portare a termine l’invasione. Ha istruito le sue armate ad essere pronte entro il 2027.
Dal canto suo Taiwan non ha dichiarato l’indipendenza, né una gran parte della popolazione la vuole. Mantenere lo status quo potrebbe sembrare la soluzione migliore al momento: ma quanto durerà? Una soluzione diplomatica che soddisfi la Cina e Taiwan è forse quella di rinviare a tempi futuri questa ambiguità, scrive Taino. Eppure, il settanta per cento dei taiwanesi è pronto a combattere in caso di un’invasione cinese. Difficilmente però potrebbero controbattere a un esercito massiccio come quello cinese, che invierebbe truppe tra cielo, terra e mare. Oggi i rapporti tra Taipei e Pechino sono molto deteriorati a causa della crescente aggressività del Partito Comunista Cinese: difficile dire fino a dove il Dragone si spingerà. Certo è che «se Taipei dichiarasse l’indipendenza, come gli indipendentisti vorrebbero, e stabilisse l’isola come uno stato autonomo dalla Cina, Pechino interverrebbe con metodi spicci».