Violenza di genere e native americane: un approfondimento con Ilenia Costa, autrice de “La voce del silenzio”

Gli Stati Uniti, così vicini per i contenuti culturali che consumiamo tutti i giorni, ci sfugge misteriosamente quando tentiamo di scrutare in profondità la questione dei nativi americani. D’altra parte per noi è lontana e anche quando tentiamo di approfondirla è difficile capire da dove partire. E se a questa dimensione aggiungiamo quella del femminismo, la realtà appare ancor più sorprendentemente estranea.
Tuttavia, La voce del silenzio di Ilenia Costa non esita a scagliarci contro una cruda e ineludibile verità: la tenace lotta delle donne native americane. Esso ci obbliga a riflettere profondamente su quanto sia universale ogni forma di resistenza. La voce del silenzio. Le donne native americane scomparse e vittime di violenza di genere negli Stati Uniti edito da Scatole Parlanti è un prezioso contributo alla tematica del femminismo intersezionale e l’abbiamo approfondito con l’autrice.
Come ti sei avvicinata a questo tema all’apparenza così lontano dalla nostra quotidianità?
«Mi sono avvicinata al tema della violenza di genere grazie alle attività che svolgo con l’Università degli studi di Siena – dove frequento la magistrale in Relazioni Internazionali – in particolare con il Tavolo sul linguaggio di genere, il CUG di Ateneo (Comitato Unico di Garanzia) e uRadio, la webradio degli studenti e delle studentesse di Siena.
L’interesse più specifico per la violenza di genere perpetrata sulle donne native americane negli Stati Uniti si è concretizzato soprattutto nel 2021, quasi per caso, quando la mia migliore amica, americana e residente a Chicago, mi ha parlato del suo viaggio tra le comunità indigene dell’America centrale. Mi ha citato le loro condizioni di difficoltà – sociali, economiche, ambientali. Andando poi a informarmi in rete, ho notato come la violenza di genere fosse uno dei loro problemi più grandi ma che, nonostante questo, rimanesse un elefante nascosto sotto il tappeto dell’indifferenza. Così, ho deciso di dar voce a queste donne attraverso la mia tesi di laurea triennale diventata poi un libro».
Qual è l’obiettivo primario che vorresti raggiungere con questo libro?
«L’obiettivo che vorrei portare avanti con questa ricerca viene anticipato già dal suo titolo: La voce del silenzio. Ciò che ho cercato di fare, infatti, è dar voce al silenzio in cui ricade il femminismo nativo americano ogni volta che rimane inascoltato. Il silenzio diventa parte stessa dell’abuso, perché impedisce alla vittima di ottenere il riscatto per la violenza subita. In qualche modo, quindi cerco di combattere questa indifferenza attraverso la divulgazione di un tema, che necessita di una maggiore rilevanza nazionale e internazionale.
Vorrei dimostrare che, nonostante le donne native americane negli USA sembrino una realtà così lontana da quella europea, in realtà è negli interessi di tutte e tutti noi essere al corrente di come la violenza sessuale si insinui in una minoranza. Se ci pensiamo bene, infatti, è lo specchio della violenza di genere che le donne appartenenti a un gruppo etnico ristretto subiscono in contesti sociali molto vicini a noi».
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Entrando nel vivo del saggio, quali sono le sfide principali che le donne native americane devono affrontare per vedere riconosciuti i loro diritti?
«La prima sfida che le donne native americane devono affrontare è la creazione di una maggiore consapevolezza sociale e mediatica sulla violenza di genere. Quella sulle donne native americane è infatti una duplice violenza. Dapprima come donne, e poi come persone di etnia indigena.
L’ambito giuridico e legislativo, strettamente correlati tra loro, implicano una sfida fondamentale per le donne indigene: consolidare un sistema di diritto in grado di tutelarle. Infatti, c’è sicuramente una enorme differenza nelle modalità con le quali i casi di violenza vengono giudicati. Quando la vittima appartiene alla comunità indigena, entra in gioco la competenza giuridica non solo dei tribunali federali e statali, ma anche quella dei tribunali nativi americani. E la legislazione non sempre è chiara su chi abbia competenza a giudicare la fattispecie, in base alle circostanze della violenza e all’identità dell’aggressore. Questo provoca un atteggiamento disilluso nelle donne native americane verso il sistema di giustizia americano».
Cosa significa “femminismo” nel contesto culturale dei nativi americani?
«Il femminismo è intrinseco nella cultura nativa americana, come idea di rispetto e valorizzazione della donna. D’altronde, prima dell’arrivo della colonizzazione, la donna veniva associata alla Natura e per questo diventava entità divina e intoccabile. Possiamo traslare questa concezione spirituale alla realtà indigena attuale: la donna diventa l’anima della comunità che deve essere preservata, così come deve esserlo la Natura. Infatti, per le comunità indigene, la preservazione dell’ambiente ancestrale va di pari passo con il rispetto dell’identità femminile».
Come si intrecciano la violenza di genere e il femminismo al colonialismo?
«Come ho appena anticipato, il femminismo era già presente nella comunità nativa americana prima della colonizzazione; allo stesso tempo, diventa la conseguenza necessaria a un’epidemia di violenza di genere che si è scatenata sulle donne indigene nel corso dei secoli successivi.
Se intendiamo il femminismo dal lato della valorizzazione della donna è una caratteristica universale nella comunità indigena. Se consideriamo il – relativamente – più recente aspetto delle lotte sociali femministe, qui dobbiamo includere anche la lotta alla violenza di genere, retaggio diretto del colonialismo europeo in Nord America».
Dal 2020 sembra esserci stata una svolta da parte del governo degli Stati Uniti. Racconti ai nostri lettori cosa è stato fatto e perché non è abbastanza?
«I primi passi avanti effettivi sono arrivati dopo la fine della pandemia COVID-19, che aveva portato sostanzialmente a un arresto delle proposte di leggi pendenti sulla violenza di genere, quasi a dire che la violenza di genere non rientrasse tra le priorità del momento.
La legge che ha rappresentato una conquista importante per i diritti delle donne native americane, prende il nome di Violence against Women Reauthorization act 2022. Il testo di legge prevede: il rafforzamento della prevenzione allo stupro e alla violenza di genere, sostegno economico alle vittime di violenza di genere e alla comunità LGBTQ+, il riconoscimento della giurisdizione delle corti indigene su aggressori NON nativi americani e l’individuazione di magistrati statali, locali e nativi americani per controllare che le leggi federali sulla limitazione di armi da fuoco siano rispettate.
Tuttavia, anche se questa Legge ha fatto dei passi avanti importanti nella tutela delle donne indigene dalla violenza, restano dei nodi centrali da sciogliere. Innanzitutto, non è stata ancora predisposta un’agenzia specifica per vigilare sul rispetto delle limitazioni imposte agli aggressori che hanno utilizzato armi da fuoco (fenomeno in crescita nell’ambito della violenza di genere sulle donne native americane). A tal proposito, nella Legge non è stato sanato il cd “Boyfriend loophole”, ovvero la tutela delle donne aggredite con un’arma da fuoco fuori da un vincolo di matrimonio. In più, moltissime comunità indigene non sono ancora riconosciute ufficialmente e questo è particolarmente significativo nelle aree dell’Alaska e delle Hawaii, dove le donne native americane rimangono vittime di violenza più che altrove. Come possiamo garantire l’applicazione corretta di una legge, se molte donne ne sono escluse?»
Cosa possono imparare le persone femministe di tutto il mondo dal caso delle native americane?
«L’insegnamento che possiamo trarre dalle native americane e dalla violenza di genere che le vede purtroppo protagoniste è che il femminismo e il rispetto della donna sono valori universali, ma che non riescono ancora a vincere una società patriarcale e maschilista. La lotta portata avanti da queste donne ci deve ricordare l’impegno quotidiano nella realizzazione di una società più attenta ai diritti femminili. Ma soprattutto, ci deve rendere persone più consapevoli di quanto non sia il “diverso” a doverci incutere paura quando si tratta di violenza sessuale, come nella violenza di genere sulle donne native americane, dove la maggior parte degli aggressori sono americani bianchi ed occidentali. Talvolta, invece, associamo il prototipo di aggressore a un uomo di etnia straniera – non bianco e non occidentale – quasi come a pensare che l’aggressore non potrebbe mai essere “un nostro simile”».