Il viaggio di Micol Flammini oltre il passato sovietico

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La cortina di vetro (Mondadori 2023) di Micol Flammini è un lungo reportage dall’Europa centrorientale che ripercorre dettagliatamente la storia dei Paesi un tempo sotto l’influenza sovietica. Si parte dai primi anni Novanta, che segnarono nei Paesi dell’Europa occidentale l’illusione che, crollata l’Urss, sarebbe bastato integrare la Russia nelle strutture occidentali. Nel frattempo, gli ex Paesi oltre-cortina hanno fatto la gara per entrare nella Nato e nell’Ue come unica assicurazione contro l’aggressività del Cremlino. L’illusione nei confronti di una Russia “buona” sotto Vladimir Putin svanì presto. Già nel 2008 Mosca violò la sovranità della Georgia. Il primo capitolo del volume è sull’Ucraina, dove le prime statue di Lenin iniziarono a cadere nel 1991. Un gesto contro il passato, lo definisce l’autrice, il tentativo di eliminare il controllo che Mosca aveva su Kiev. L’«operazione militare speciale» per «demilitarizzare» e «denazificare» l’Ucraina ha attestato l’aggressività politica internazionale della Russia.

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Il sogno del Cremlino era quello di ampliare il russkij mir, il mondo russo – un complesso di valori fondato su lingua, militarismo e fede ortodossa. Un obiettivo rappresentato dal tentativo di ristabilire i legami con i russi rimasti nelle ex repubbliche socialiste garantendo loro diritti e tutele. Diritti e tutele che, a detta del Cremlino, dopo il 1991 non sarebbero stati rispettati dalle nuove entità statali. Tra le motivazioni per l’intervento in Ucraina c’è proprio questa concezione: difendere i russi dalle degenerazioni dell’Occidente. Nel 2022 Putin volle fare i conti con l’Ucraina, un Paese che aveva già vissuto tempi turbolenti. Viktor Janukovyč, il presidente-pupazzo messo a Kiev da Cremlino, fu all’origine dello scontento delle proteste di Euromajdan. Sfacciatamente filorusso, l’ex presidente era ossessionato dalla sicurezza e dal lusso. Non parlava neppure bene l’ucraino e firmò accordi di partnership con la Russia (l’Unione economica euroasiatica), scoraggiando le aspirazioni europeiste del Paese.

Sulla scorta di proteste incontrollabili, Janukovyč fuggì in Russia. Gli succedette Petro Porošenko, che voleva ristabilire l’ordine nel Paese e disse che non avrebbe esitato a usare la forza contro Mosca per affermare l’indipendenza ucraina. Porošenko fece leggi a tutela dell’identità nazionale e rafforzò l’esercito, che non voleva cedere alle pressioni della Russia, affamata anzitutto di grano – che rimane il simbolo della ricchezza e della sofferenza della nazione, ricorda Micol Flammini. Storicamente, la Russia ha sempre cercato di soggiogare l’Ucraina: Stalin voleva estirparne la vocazione agricola per farne un centro dell’industria pesante. Alla collettivizzazione forzata e alla dekulakizzazione si sommò anche l’Holodomor. Dopo l’uscita di scena di Janukovyč, Putin capì che avrebbe dovuto trovare altri metodi per governare per interposta persona e rafforzare il legame tra Kiev e Mosca. Il 2014 e il 2022 sono fasi di un unico piano, sostiene l’autrice.

Un capitolo è dedicato alla Bielorussia. Micol Flammini ripercorre come alla vigilia del crollo del blocco sovietico nel Paese non ci fosse alcun fermento rivoluzionario. Ancora oggi, i bielorussi sono i più nostalgici tra i popoli dell’ex blocco – il nome di Feliks Dzeržinskij nei Paesi post-sovietici fa tremare, in Bielorussia no. Il presidente Alexander Lukashenko, al potere dal 1994, cercò sin da subito di centralizzare l’economia del Paese, proprio come se fosse un sovchoz. Secondo Micol Flammini, il presidente lavorò a un progetto per unificare Ucraina, Russia e Bielorussia. A tutti gli effetti, la Bielorussia è rimasta un’enclave sovietica ai confini dell’Europa. Il russo è la lingua ufficiale e nessuno sente la necessità di rinvigorire il bielorusso. Negli anni, l’Ue non si è mostrata mai molto troppo esigente nei confronti del dittatore bielorusso, ma capì che poteva utilizzarlo come intermediario con i rapporti con il Cremlino.

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Da anni Lukashenko “vince” le elezioni, ma nel 2020 le cose sono cambiate. Uno youtuber, Sergej Tichanovskij, ha messo a dura prova il regime. Per tutti Lukashenko diventò lo scarafaggio: lo slogan con cui si presentò alle elezioni Tichanovskij era «fermiamo lo scarafaggio». Arrestato, il suo lavoro venne portato avanti dalla moglie. Micol Flammini presenta un ritratto a tutto tondo di Svetlana Tichanovskaja. Assieme con Maryja Kalesnikava (flautista) e Veronika Tsepkalo (attivista), la campagna che il triumvirato fece contro il dittatore alle ultime elezioni fu coinvolgente. La protesta fu elegante, pacifica, armoniosa e andò avanti a lungo. D’altra parte, Lukashenko chiedeva aiuto al suo alleato al Cremlino e iniziò a terrorizzare la popolazione – con il dirottamento di un volo Ryanair nel maggio 2021 per arrestare il giornalista dissidente Roman Protasevič. Arrestata dopo le elezioni, Tichanovskaja aveva due scelte: o l’esilio, o il carcere.

Non poteva mancare poi il capitolo su Polonia e Ungheria. Qui la Storia si fa sentire maggiormente e ha un impatto sulle posture antirusse (Polonia) e filorusse (Ungheria) di oggi. I rapporti con la Russia sono sempre stati tesi. Il maresciallo Józef Piłsudski, primo capo di Stato della Polonia indipendente nel 1918, sconfisse l’Armata Rossa due anni dopo. Nel 1940, nella foresta di Katyn’, i sovietici massacrarono 22mila polacchi, tra ufficiali, intellettuali, professori, industriali, giornalisti. Mosca negò fino agli anni Ottanta ogni coinvolgimento e addossò la colpa ai nazisti. Tra gli obiettivi di Stalin c’era quello di cancellare la Polonia, un Paese che nella Storia si è sempre trovato al centro di controversie territoriali tra Est e Ovest. Centro di sofferenza e resistenza, quando Putin disse che doveva proteggere le minoranze russe in Ucraina, i polacchi si ricordavano di analoghe giustificazioni che portarono i nazisti a invaderla nel 1939.

Varsavia fu rasa al suolo e quando l’Armata Rossa procedette a est nel 1944 si fermò sulla riva destra della Vistola, in modo da consentire ai nazisti di reprimere l’insurrezione polacca. «I russi non sono mai perdonati da Varsavia, che però ha perdonato i tedeschi», ricorda Micol Flammini, sebbene il PiS oggi chieda ricompense a Berlino in ambito di riparazioni belliche. Parimenti è scomparso anche l’astio nei confronti degli ucraini. Durante la Guerra, Stepan Bandera avviò un’operazione di pulizia etnica in Volonia e Galizia, massacrando circa centomila polacchi. L’ammissione di colpa ucraina non è mai arrivata, ma il 24 febbraio 2022, Varsavia non ha esitato a dare il proprio aiuto a Kiev. Oggi la Polonia «ha piuttosto capito che le nazioni possono cambiare, che la storia può ammettere un’evoluzione. È la Russia, semmai, che è rimasta immobile e che nel suo passato vuole intrappolare il resto dell’Europa», spiega Flammini.

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Oggi la Polonia è una voce critica nei confronti di Bruxelles, ma conosce il suo posto nell’Europa delle nazioni. Budapest, d’altra parte, non promuove ideali europeisti e strizza l’occhio al Cremlino. Viktor Orbán, il teorizzatore della democrazia illiberale, ha esplicitato i fallimenti dei valori occidentali ed è apprezzato dai sovranisti di tutto il mondo. Ambizioso, carismatico, è fiero di essere la pecora nera dell’Europa centrale. Un tempo era antisovietico, oggi è vicino al Cremlino – l’Ungheria è l’unico Paese che non ha neppure tentato l’indipendenza energetica da Mosca. Un tempo, il suo Fidesz (Alleanza dei giovani democratici) era un laboratorio di idee per il futuro: anticomunista, democratico, europeista, liberale. Fervente nazionalista, Orbán crede che l’Ungheria sia stata trattata ingiustamente. Avanza richieste territoriali a sud della Slovacchia e in Transcarpazia, dove ci sono voluminose minoranze ungheresi.

Le fantasie magiare sono una preoccupazione per Kiev (la Transcarpazia faceva parte della Grande Ungheria durante la guerra). In merito al rapporto con il passato, gli ungheresi non hanno dimenticato l’invasione sovietica del 1956, ma «hanno introiettato l’idea che i russi di oggi non sono sovietici di ieri e le decisioni del Cremlino non hanno più a che fare con il futuro dell’Ungheria». L’autrice discute anche dei Paesi baltici, dell’ex Iugoslavia e del Caucaso. Si comincia dal 23 agosto 1989 quando, lungo la via baltica, centinaia di migliaia di persone si strinsero per mano per dimostrare a Mosca il loro dissenso nei confronti del giogo sovietico. Quanto ai Balcani, sanno di vivere in bilico. Micol Flammini conclude poi con le “schegge di Russia”: la Transnistria, l’Abcasia e Ossezia, il Nagorno-Karabakh, l’Azerbaijan e l’Armenia, fino alla Serbia e alla questione del Kosovo, gli “stan” dell’Asia centrale che oggi guardano alla Cina.

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Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, classe 1997, MA in Relazioni Internazionali, BSc in Comunicazione, giornalista freelance, gestisce “Blackstar”, www.amedeogasparini.com