Enzo Tortora: un monito per la giustizia e i media

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Secondo alcuni pentiti, Tortora avrebbe spacciato droga nel mondo dello spettacolo per conto di Raffaele Cutolo e la Nuova Camorra Organizzata. Iniziarono così quattro anni di calvario giudiziario e mille giorni agli arresti. Quindi sette mesi di carcere, prima a Roma e poi a Bergamo. In quei mesi, pochi stettero vicino ai Tortora – Piero Angela, Leonardo Sciascia, Indro Montanelli ed Enzo Biagi sostennero il collega. Non a torto, l’autrice parla di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia della Storia italiana. Eppure, Camilla Cederna sentenziò: «Non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni». E ancora: «Il personaggio non mi è mai piaciuto»; «qualcosa avrà fatto. La brava gente non viene arrestata». Rabbia e dolore affollavano i pensieri della giovane Gaia.

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L’autrice riesce a portare il lettore all’età di una adolescente che vede di punto in bianco scomparire il padre. Ne ricorda i tratti: un uomo mite, riservato, estraneo alla mondanità. Prima di andare a letto, leggeva tranquillo nel suo studio: leggeva sempre. «Osservavo la sua maniacale preparazione, l’estrema professionalità, l’educazione e la gentilezza con cui si comportava con tutti». La figlia ricorda come egli diventò il simbolo della lotta contro la malagiustizia, per la responsabilità civile dei magistrati e per i diritti umani dei detenuti. I magistrati lo accusavano di qualcosa che non aveva commesso. Il Partito Radicale di Marco Pannella lo sostenne. Nel 1984 lo candidò al Parlamento Europeo, per cui ottenne oltre mezzo milione di preferenze.

Al processo del 1975 fu condannato a dieci anni e sei mesi. Si dimise da europarlamentare, rinunciò all’immunità e si consegnò in piazza Duomo a Milano. In carcere, Tortora scoprì molta umanità. Nei primi giorni i carcerati lo trattavano come un ospite momentaneo, risparmiandogli i turni di cucina e pulizia. Un gesto di cui fu sempre grato. Resistette. «Stiamo diventando la bara del diritto», protestava. Impazziva “l’infamia”, come la chiamava lui. Oggi Gaia è serena: si dice pacificata; magari non del tutto. Ma ha compiuto un bel pezzo di cammino per rielaborare l’evento. Riconosce le sue debolezze. Nel settembre 1986 i giudici assolsero Enzo Tortora in primo grado in formula piena. Il fatto non sussisteva. Il giornalista denunciò lo Stato e i magistrati che si erano accaniti contro di lui. Chiese cento miliardi di lire, da utilizzare poi per creare una fondazione per le vittime della malagiustizia.

Nel febbraio 1987 tornò in tv: Portobello registrò oltre dodici milioni di telespettatori. La sua prima frase: «Dunque, dove eravamo rimasti?». In quel periodo, Enzo Tortora soffriva d’insonnia. Aveva già reso noto che era ammalato di cancro. «Mio padre era distrutto dall’idea che una qualunque persona […] potesse avere il minimo dubbio sulla sua innocenza». L’autrice invita a coltivare il dubbio e impone un esame di coscienza sia ai media che alla magistratura nel suo complesso. Il caso che toccò suo padre fu l’esempio di come i media spesso non si fanno domande. E come l’opinione pubblica si spacca: colpevolisti, innocentisti. A soffrirne, oltre che l’imputato, è lo stato di diritto. Enzo Tortora scomparve il 18 maggio 1988. Scelse di farsi seppellire insieme ai suoi occhialini d’oro e alla Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. I due sono sepolti a pochi metri di distanza al Monumentale di Milano

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Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, classe 1997, MA in Relazioni Internazionali, BSc in Comunicazione, giornalista freelance, gestisce “Blackstar”, www.amedeogasparini.com