Note e pagine biografiche di Benedetto Croce
Nella prefazione di Soliloquio e altre pagine autobiografiche (Adelphi, 2022) di Benedetto Croce, Piero Craveri – il nipote – ripercorre la storia di alcuni scritti scelti del filosofo napoletano. Brani, peraltro, letti da Toni Servillo in occasione del centocinquantesimo anno dalla nascita al Teatro Bellini.
Croce ha vissuto una vita intensa. Nato a Pescasseroli il 25 febbraio 1866, veniva da un’agiata famiglia abruzzese. Fu il primo biografo di sé stesso, anche grazie al lungo diario sui cui annotava tutto ciò che faceva. Lo usava, scrisse, per controllare di giorno in giorno l’utilizzo del suo tempo. Il diario venne pubblicato da Adelphi quarant’anni dopo la morte: sono i celebri Taccuini di lavoro. Croce è stato un autore prolifico. Ha prodotto oltre ottanta volumi. Centomila, invece, le lettere della sua corrispondenza. Il Soliloquio parte dall’infanzia, che Croce ricorda per l’affetto che aveva per i libri.
Alla madre doveva il suo interesse per il passato. La perse, con il padre e una sorella, nel terremoto del 28 luglio 1883 a Ischia, dove i Croce si trovavano a villeggiare. Claudicante per le ferite riportate, si traferì a Roma nella casa dello zio materno, Silvio Spaventa, che diventò il suo tutore.
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«Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio».
Quando si stabilì a Napoli, riconobbe di essere tornato a una vita più ordinata e felice. L’insicurezza e le ansie del fanciullo, tuttavia, si erano traghettate anche nel tempo adulto. Si sposò con Adele Rossi ed ebbe quattro figlie. Lungo tutto il primo Novecento, partecipò attivamente alla vita politica sociale del tempo.
Studioso del liberalismo, era un avversario della demagogia e del populismo. Contrario all’entrata dell’Italia nella Grande Guerra, in seguito corresse la sua posizione. Dopo la disfatta di Caporetto, nel novembre 1917, scrisse: «Avvenga quel che avvenga, sicuramente vinceremo». Nel novembre 1918, però, il suo entusiasmo si sciolse. «Far festa perché? La nostra Italia esce da questa guerra come da una grave e mortale malattia, con piaghe aperte, con debolezze pericolose nella sua carne, che solo lo spirito pronto, l’animo cresciuto, la mente ampliata rendono possibile sostenere e volgere, mercé duro lavoro, a incentivi di grandezza». Gli anni della ricostruzione dopo la Grande Guerra lo portarono all’apice della fama. Giovanni Giolitti lo voleva ministro della Pubblica Istruzione nel suo ultimo governo (1920-1921), ma l’interessato declinò. Con l’avvento del fascismo appoggiò l’ingresso di Giovanni Gentile, amico da vent’anni, alla medesima posizione governativa.
Licenziato Gentile, Benito Mussolini in persona chiese a Croce di sostituirlo. E di nuovo, il filosofo rifiutò. Divenne altresì avversario della dittatura e ruppe con Gentile. Su sollecitazione di Giovanni Amendola, pubblicò il Manifesto degli intellettuali antifascisti. Croce si disse pronto anche alla censura. Era sicuro che le sue opere sarebbero state pubblicate postume anche alla luce delle violenze fasciste che subì in prima persona. Era il 1° novembre 1926. Alcuni squadristi avviarono una spedizione punitiva a casa sua.
«Alle 4, siamo stati svegliati da un gran fracasso di vetri rotti e di passi affrettati: era una dozzina o quindicina di fascisti, venuti […] a devastarmi la casa […]. Gettatomi dal letto, mi sono affacciato dalla stanza per domandare che cosa fosse: mi hanno risposto: “Fascisti, fascisti”, e un tale ha aggiunto volgari parolacce».
Alla fine degli anni Trenta, Croce era isolato.
«Ciò che mi opprime veramente è la condizione generale degli spiriti in Italia e fuori d’Italia; la menzogna, la malvagità e la stupidità in cui siamo come immersi e quasi sommersi; gli atroci delitti ai quali si assiste impotenti (come è ora la fredda spoliazione e persecuzione degli ebrei, nostri concittadini, nostri compagni, nostri amici, che per l’Italia lavoravano e l’Italia amavano non più né meno di ogni altro di noi); l’incertezza del domani in ogni sfera della vita […]; l’indifferenza e l’ignoranza dei cosiddetti giovani, che niente conoscono e di niente si appassionano».
Provò un senso di liberazione il 25 luglio 1943. «Una liberazione da un male che gravava sul centro dell’anima» (Taccuini di lavoro). La caduta di Mussolini lo riportò al centro del dibattito politico. Benedetto Croce si spense a Napoli il 20 novembre 1952.