Indiana Jones e il quadrante del destino: l’iconico archeologo appende il cappello al chiodo

Avventurieri di tutto il mondo, l’attesa è finita: Indiana Jones e il quadrante del destino è nelle sale italiane dallo scorso mercoledì. Come assicurato dal protagonista Harrison Ford in molte occasioni, quella del quadrante del destino sarà l’ultima avventura del suo archeologo, e questa pellicola è un po’ il suo modo per dire addio al personaggio che gli sta appiccicato addosso da più di quarant’anni.
Grande è stata l’attesa per questo film, grandi sono state le aspettative del pubblico e della critica – e non sono mancati commenti sul fatto che il signor Ford (ottantuno anni il prossimo luglio) sia ormai vecchio per questo genere di interpretazioni, come anche i timori sull’eventualità che questo ultimo episodio potesse danneggiare una saga epica che ha cambiato la storia del cinema e del costume.
Nel film, oltre a Ford, troviamo Phoebe Waller-Bridge nei panni della figlioccia di Jones, Antonio Banderas (un vecchio amico di Indy), Mads Mikkelsen (il cattivo) e il giovanissimo Ethann Isidore che interpreta un giovane aiutante del vecchio archeologo.
Il mistero del quadrante del destino
Il film si apre con un lungo flashback, necessario ai fini della comprensione della vicenda, in cui un professor Jones decisamente più giovane (grazie alla grafica digitale) è stato appena catturato da un manipolo di nazisti alla ricerca di tesori antichi da portare al Führer che, come la storia ci insegna, era ossessionato dall’idea di possedere oggetti del passato.
Veniamo a conoscenza dell’esistenza di un misterioso quadrante realizzato dal matematico Archimede per studiare il movimento degli astri e prevedere le maree e le tempeste. Il quadrante, però, è solo a metà: fu Archimede stesso a smontarlo e a separare le due parti, per impedire che potesse essere messo in funzione da persone pericolose.
Ma torniamo al presente. Siamo nel luglio del 1969 e gli americani stanno per sbarcare sulla Luna. Indiana Jones è ai suoi ultimi giorni di lavoro prima della pensione e viene intercettato dalla sua figlioccia Helena, che lo coinvolge nella ricerca dell’altra metà del quadrante, per scrivere su questo la sua tesi di dottorato in archeologia. Un invito a riprendere cappello e frusta ancora una volta per un uomo ormai rassegnato a vivere il resto dei suoi giorni crogiolandosi in una triste solitudine. Un invito a noi spettatori a immergerci in una nuova rocambolesca avventura attraverso tre continenti (America, Africa ed Europa) e a vivere un incredibile viaggio nel tempo.
Il nostro giudizio sul film
Abbiamo visto il film carichi di aspettative ma al tempo stesso consapevoli che sarebbe potuto essere un clamoroso tonfo: c’è troppa storia del cinema alle spalle di Indiana Jones per non fare continuamente confronti con i film precedenti, le trame, le vicende, lo spessore dei personaggi che abbiamo imparato a conoscere. Anche la questione del ringiovanimento digitale di alcuni personaggi per la realizzazione dei flashback era un terreno di sfida piuttosto scivoloso, su cui era lecito nutrire dei dubbi.
Ma Indiana Jones non delude mai, e Harrison Ford non si rende ridicolo cercando di imitare il sé stesso del passato in una macchietta che non avrebbe portato da nessuna parte. Il suo personaggio è vecchio, stanco, non nasconde gli acciacchi e le rughe, fa ironia sul tempo che è passato e sui segni che gli ha lasciato addosso. Nuove paure albergano nel suo sguardo intenso e navigato, paure che prima non gli appartenevano – come quella della sofferenza, della morte e della fine ineluttabile di un destino incredibile.
Ci sono, ovviamente, inseguimenti ai limiti del plausibile, misteri da risolvere, alfabeti antichi, vecchi codici dimenticati, cattivi da sconfiggere e tutto ciò a cui il buon Spielberg ci ha abituati in questi anni – e tutto funziona bene, proprio come gli ingranaggi del quadrante di Archimede. I nuovi personaggi (buoni e cattivi) hanno un loro spessore, non sono dei fantocci che fanno da mera cornice all’eroe. Alcuni volti noti della vecchia trilogia tornano per delle brevi apparizioni, e a noi spettatori fa piacere rivederli, pur con i segni del tempo e tutto il resto.
Insomma, un film ben riuscito, che tiene testa agli episodi del passato e che non lascia in bocca un senso di déjà-vu. Non saremo noi a dirvi se sia il migliore della saga, o quale sia il migliore della saga. Lasciamo a voi il compito di vedere e giudicare con la vostra sensibilità.
Il destino di un uomo che ha vissuto fortuna e gloria
Ma, al di là dell’avventura “archeologica”, c’è una cosa che più delle altre ci ha colpito e ci ha spinto a una riflessione: quest’ultima avventura ha il retrogusto amaro e triste del tempo che passa, impietoso, e delle sue cicatrici profonde lasciate sulla pelle e sul cuore. Indiana Jones è cresciuto, è invecchiato, non è più lo spericolato avventuriero dal grilletto facile che agisce senza pensare e che lascia dietro di sé una scia di cuori infranti. È un uomo maturo, che ha sperimentato (finalmente, come è giusto che sia) cosa significhi perdere e soffrire – dopo averla passata liscia troppe volte.
Lo abbiamo conosciuto come un supereroe indistruttibile, infaticabile e impenetrabile – quasi una macchina da guerra piuttosto che un uomo reale – amante delle donne, conquistatore di tesori, esperto conoscitore del presente come di un lontanissimo passato. Ora troviamo un essere umano con tutti i suoi limiti (fisici e non sono), un professore ormai stanco e disilluso, un marito col cuore a pezzi e un padre distrutto dal dolore. Un uomo a cui non importa più nulla del presente che lo circonda e che è disposto a dire addio alla vita pur di smettere di soffrire. E, anche se il film si conclude con un lieto fine, questo senso di dolorosa malinconia non va via e accompagna lo spettatore anche fuori dalla sala.