Vita e morte di Silvio Berlusconi, secondo un millennial

Non è semplice parlare di Silvio Berlusconi. Nel bene e nel male è stato un personaggio dalle mille sfaccettature, dalle tante contraddizioni, dall’innegabile carisma. È ancora più difficile nel momento della sua dipartita, con le due tifoserie pronte a puntare il dito, sia che ci si vada troppo leggero che ci si vada troppo pesante.
Ancor più difficile è farlo se si è nati nei primi anni Ottanta, come il sottoscritto. C’è infatti un’intera generazione, quella dei millennial – e ancor di più quella degli xennial – che ora si trova intorno ai quarant’anni, e non ha mai vissuto un’epoca senza Silvio Berlusconi.
È un’imprinting che ti marchia a fuoco.
Quelli venuti prima hanno visto il socialismo di Craxi, la DC, il comunismo (quello reale). Hanno vissuto l’epoca delle ideologie, dei partiti di massa, dell’impegno civico in prima persona, del crederci davvero, anche troppo.
Quelli venuti dopo, invece, sono nati già disillusi, con la valigia in mano, consci che né il mondo né i temi politici terminano ai confini del Belpaese. Si sono affacciati alla politica con un Berlusconi già in fase decadente. Quello dei bunga bunga, del debito pubblico alle stelle e dell’ascesa dell’estrema destra. Lo vedevano come la macchietta di sé stesso che era diventato. Un nonno simpatico che racconta le barzellette sconce, più che un influente personaggio politico. In ogni caso, sono ancora giovani e l’esposizione è stata breve.
Chi si è trovato nel mezzo, però, ha sempre avuto un solo e unico punto fermo in tutta la propria vita politica, dalla nascita fino all’età adulta: Silvio Berlusconi.
Gli anni Novanta
Affacciarsi alla politica da giovane adolescente, negli anni Novanta, era una scelta di “campo”, per citare il Cavaliere: dopo Tangentopoli, o eri con Berlusconi o eri un comunista. Tertium non datur. O, quantomeno, questo era il messaggio che voleva far passare Silvio e che faceva presa soprattutto tra i giovani, i più inclini a ragionare per assoluti.
Al tempo ebbi la fortuna di avere un’insegnante di italiano straordinaria, che non si faceva problemi a investire tempo per farci discutere di attualità, limitandosi a fare da moderatrice e al massimo offrendo spunti di discussione. Porto nel cuore quei dibattiti, momenti nei quali si doveva davvero accendere il cervello per decodificare la realtà, metterla in parole e spiegare agli altri il proprio punto di vista. In quei momenti questa divisione emergeva in tutta la sua forza.
Al tempo io ero senza collocazione, sicuro solamente di non avere simpatia, né per il Cavaliere né per quella sinistra. Ero un ragazzino, e capii solo in seguito che non esistono solo due visioni del mondo.
La prima polarizzazone
A non capirlo, cosa ben più grave, fu il Paese.
Il sistema diventò sempre più maggioritario, sempre più bipolare. Il problema era che si parlava ben poco di temi e sempre più di personaggi. Il regista di questo cambiamento fu proprio Berlusconi, che in quegli anni riuscì a portare a casa il risultato più impattante per la sua futura carriera politica, generando al contempo il peccato originale del centro sinistra: dargli troppa corda.
L’antiberlusconismo, infatti, ha fatto a sua volta molti danni. Dalla discesa in campo in poi, l’opposizione al Cavaliere avrebbe avuto un solo punto fermo: o noi, o lui. Questo mantra la sinistra se lo porta dietro tutt’ora, quale manifestazione della sua sindrome di Stoccolma. Ascende Beppe Grillo? O noi, o lui. Salvini va per la maggiore? O noi, o lui. Emerge Giorgia Meloni? O noi, o lei. Se vincono gli altri è la fine della democrazia. Al lupo, al lupo.
Questo è stato il successo più grande del Cavaliere, dal suo punto di vista: aver portato la sinistra a rinunciare a discutere sui temi, lasciandola in un cortocircuito tale da collocarsi da sola in uno stato d’assedio cronico, tale da pretendere il voto degli elettori solo per evitare che altri prendano il potere.
Così, di fronte a questi avversari con ben pochi contenuti e poco carisma, agli occhi degli italiani Berlusconi incarnava la possibilità di poter partecipare al suo banchetto.
Gli anni Duemila
Il Cavaliere iniziò i Duemila con la sua più grande vittoria elettorale: il governo Berlusconi II, il più longevo della storia della Repubblica.
La maggior parte degli xennial in quegli anni si trovava a studiare all’università o entrava nel mondo del lavoro; e a quell’età la politica è passione, c’è poco da fare. Proprio la passione portò molti di loro a partecipare a quello che sembrava il palcoscenico perfetto per far capire al mondo che una netta parte degli italiani non era con il Cavaliere: il G8 di Genova.
Schiere di giovani e meno giovani, pacifici e armati al massimo di striscioni e slogan, fluirono nel capoluogo ligure. In mezzo a loro si infiltrarono anche i famigerati black bloc, le cui provocazioni scatenarono la reazione delle forze dell’ordine.
Una reazione che non guardò in faccia a nessuno, pacifico o meno. Fu smisurata, violenta, ben oltre il limite tollerabile in uno Stato di diritto. In particolare per quello che avvenne dopo, con la “macelleria messicana” della Diaz e i fatti della caserma di Bolzaneto, emersi in sede processuale: torture, umiliazioni di ogni genere, la sospensione dei diritti della persona, il tutto nel più totale supporto da parte del governo Berlusconi. Che si schierò sempre, anche in seguito, dalla parte dei carnefici. Non a caso, nel 2015 la Corte europea dei diritti dell’uomo dichiarò all’unanimità che durante quegli eventi era stato violato l’articolo 3 sul «divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti».
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Io al G8 non c’ero. Ciononostante, ricordo di aver seguito molto da vicino gli avvenimenti, basandomi – com’era ovvio al tempo – sulla narrazione fatta dai media, e in particolare dai telegiornali. Al tempo erano in mano da una parte al governo di centrodestra tramite la Rai, dall’altra direttamente di proprietà di Berlusconi tramite Mediaset. Ricordo che ciò che vedevo creava in me una sensazione contrastante: conoscevo chi era stato là e mi riportava una cosa, eppure i media dipingevano la reazione della polizia come una misura necessaria.
Poi, mano a mano che arrivavano più testimonianze veniva a galla cos’era davvero successo. Fu una sorta di perdita della verginità politica: da quel momento in poi mi fu chiaro che potevo anche non rispecchiarmi alla perfezione in nessuna forza politica, ma era evidente che se qualcuno poteva controllare sia la politica che i media, quel qualcuno era un problema anche per me, per il mio futuro e per quello della famiglia che avrei avuto in seguito.
A uscirne sconfitta più di tutti fu l’Italia, mostrata al mondo come un luogo dove la tortura e la violenza della polizia erano cose non solo ammesse, ma caldeggiate dal governo.
L’autunno dei diritti
I Duemila furono un decennio tremendo per i diritti.
Ricordo la rabbia che provai per la legge 40, varata proprio dalla maggioranza berlusconiana, che rendeva l’Italia il Paese più retrogrado di tutto l’Occidente sul tema della fecondazione assistita. Ricordo l’oscena campagna antireferendaria della destra insieme alla Chiesa e ai cattolici di tutti gli schieramenti, e ricordo come fosse ieri che in quel preciso momento in me si ruppe per sempre quel briciolo di legame con la religione che ancora mi portavo dietro.
Fu un sopruso vergognoso, che imponeva talmente tanti vincoli da rendere la procedura virtualmente impraticabile per le coppie eterosessuali, e del tutto impossibile per quelle omosessuali. In quel momento esplosero i viaggi della speranza verso l’estero per ottenere ciò che in patria veniva negato, il tutto con costi esorbitanti che ovviamente non tutti potevano permettersi. È il solito approccio reazionario della destra ai diritti: quelli importanti sono solo quelli della maggioranza che vota, mentre quelli delle minoranze sono carne da cannone elettorale.
Non fu l’unico caso. Nel 2000 l’Unione Europea approvò una direttiva contro la discriminazione. I Paesi membri avevano tre anni per recepire la direttiva. Il governo Berlusconi se li prese tutti, arrivando a un decreto legislativo solo nel 2003. Che però introduceva delle eccezioni, come ad esempio il fatto che non costituisse discriminazione l’esclusione dalle forze armate in base all’orientamento sessuale.
In generale, in quel decennio non ci fu nessun avanzamento sul tema dei diritti civili e anzi, ci fu un costante tentativo di limitarli o quantomeno conservare lo status quo. Ci furono solo tre grandi baluardi a difendere i diritti in Italia: l’Unione Europea (che impose il rispetto della direttiva antidiscriminazione con una procedura d’infrazione all’Italia, che fu costretta a correggere il decreto), la Corte Costituzionale e la Corte europea dei diritti umani (che disinnescarono con una serie di sentenze i quesiti referendari, a dimostrazione che la politica del Cavaliere, di nuovo dopo il G8, aveva violato i diritti umani).
In teoria, da giovane maschio, bianco ed eterosessuale, me ne sarei dovuto fregare, e molti coetanei lo facevano. Temi come la procreazione assistita o la discriminazione dei non eterosessuali non li tangevano, cresciuti com’erano secondo il mito berlusconiano dell’individualismo.
Io non me ne davo pace.
La stagione dei processi
I Duemila furono il decennio del successo per il Cavaliere, che governò per otto anni su dieci. Tuttavia, fu anche il decennio dei grandi scandali e delle leggi ad personam, che anticipavano la sua caduta.
In quegli anni Berlusconi fu imputato in un numero spropositato di processi. Sebbene sia stato condannato in via definitiva “solo” per appropriazione indebita, falso in bilancio e frode fiscale (oltre ad aver evitato una condanna per falsa testimonianza negli anni Novanta, grazie a un’amnistia), il Cavaliere è stato in grado di schivare tutte le altre pallottole sfruttando le sue cariche politiche. Da una parte usando gli impegni come scusa per rinviare le udienze fino alla prescrizione, accorciata ad hoc dai suoi governi. Dall’altra con leggi varate per proteggerlo dalle sentenze: è il caso della depenalizzazione del falso in bilancio, della legge sulle rogatorie internazionali, della legge sul legittimo sospetto, del lodo Schifani e del lodo Alfano che cercavano di regalargli l’immunità (dichiarati incostituzionali), della legge Cirielli che prevedeva la riduzione dei termini per la prescrizione.
Oltre alle leggi per salvarsi dai processi, ci sono poi state quelle per favorire i propri interessi economici: il decreto salva-Rete4, l’eliminazione delle imposte di successione per i grandi patrimoni, il decreto salva-calcio, il condono fiscale tombale di cui ha beneficiato il gruppo Mediaset. Per non parlare delle leggi che colpivano i concorrenti, come l’aumento dell’IVA per i servizi televisivi, che danneggiò Sky.
Agli occhi di un giovane con un minimo di materia grigia tra le orecchie sembrava qualcosa di allucinante: com’era possibile tutto questo? Come aveva fatto a far girare dall’altra parte mezzo Paese, mentre creava queste leggi? Soprattutto, cosa passava per la testa degli elettori?
In realtà, col senno di poi, Berlusconi non ha fatto altro che cogliere l’essenza degli italiani. Aldo Cazzullo ha scritto che gli altri volevano cambiare gli italiani, mentre a Berlusconi andavano bene così, ed è verissimo. Tuttavia, una postilla è doverosa: gli andavano bene così perché sapeva sfruttarne i punti deboli, per illuderli di un futuro radioso che non sarebbe mai arrivato, mentre nel frattempo portava a casa leggi a proprio vantaggio. Tutto si può dire di Berlusconi tranne che non sia stato il più abile piazzista della storia italiana contemporanea.
La seconda polarizzazione
A un certo punto divenne evidente che il bipolarismo doveva fare un salto di qualità. Questo fu chiaro sia a destra che a sinistra e si manifestò nella nascita del Partito Democratico, anticipata di poco da quella del Popolo della Libertà, annunciata con il famoso discorso del predellino.
Al tempo sembrò un passo avanti verso un sistema per certi versi più americano, più simmetrico: due enormi partiti a vocazione maggioritaria, ognuno con una sua piccola stampella più estrema, ma minoritaria, Lega da una parte ed estrema sinistra dall’altra.
Col senno di poi, era solo un ulteriore tassello verso la polarizzazione totale che sarebbe seguita. Il motivo era semplice: nessuno credeva che una terza forza avrebbe mai potuto competere con loro. Quanto si sbagliavano.
Dagli anni Dieci a oggi
Il decennio successivo fu quello del declino berlusconiano.
Pur essendo all’apice della sua carriera politica e di nuovo alle redini del Paese, lo trascinò a un passo dal default. Vale la pena sottolineare di nuovo un aspetto: dei dieci anni precedenti il Cavaliere ne aveva governati otto, e ha sempre governato lui negli anni cruciali che seguirono il crack Lehman Brothers, durante i quali il debito pubblico esplose. La sua responsabilità per quanto avvenne dopo è pertanto innegabile.
Di fronte a un mercato che dava l’Italia quasi per spacciata e alle insistenze dell’Europa, arrivarono le dimissioni di Berlusconi, nel 2011, quando eravamo ormai sull’orlo del baratro.
Il governo Monti mise una pezza prendendo misure drastiche ma necessarie, ancorché severe, per rimettere in sesto i conti pubblici ed evitare il peggio. Passarono alcune importanti riforme che solo un governo tecnico di emergenza senza nessun futuro politico aveva la forza di implementare. Come la riforma Fornero: raddrizzò il sistema pensionistico italiano, un buco nero di risorse che scaricava sulle generazioni successive il privilegio di mandare mandare in pensione prima della sostenibilità finanziaria un’intera generazione, quella dei boomer, che aveva il coltello dalla parte del manico perché molto numerosa, e quindi “pesante” a livello elettorale.
Si trattò di una riforma non perfetta, che incastrò nei propri ingranaggi i famosi esodati, ma che migliorò il sistema rendendolo di gran lunga più equo e sostenibile di prima. Non nego che, ai miei occhi di giovane condannato a non andare in pensione prima dei settant’anni, sembrava realizzarsi qualcosa di impensabile fino a pochi mesi prima.
Di lì a poco arrivò a termine il già citato processo Mediaset, che vide la condanna definitiva di Silvio Berlusconi per appropriazione indebita, falso in bilancio e frode fiscale, e che prevedeva anche l’interdizione dai pubblici uffici per due anni.
A ciò si aggiunse la celebre questione della minorenne “nipote di Mubarak” e dei bunga bunga, a sgretolare ulteriormente la sua reputazione. Da imprenditore di successo e politico sulla cresta dell’onda venne conosciuto in tutto il mondo come la macchietta di sé stesso, disposto a tutto pur di coprire la sua impresentabile vita privata.
Sembrava la pietra tombale sulla carriera del Cavaliere: chi mai avrebbe votato ancora una volta chi ci aveva portati sull’orlo del baratro, per giunta condannato in via definitiva e con una reputazione del genere?
L’ultima polarizzazione: la legittimazione del post fascismo
Eppure Silvio Berlusconi aveva la scorza dura, e passati i due anni rientrò in politica. Il danno, tuttavia, era fatto e il Paese stava andando in un’altra direzione. L’ascesa del populismo pentastellato, in larga parte causato proprio dal rifiuto per il malaffare berlusconiano, cresceva di elezione in elezione, mentre il centro destra andava in pezzi. Anche lo storico alleato, Umberto Bossi, dovette cedere il passo in seguito agli scandali leghisti.
Nel frattempo, anche Gianfranco Fini aveva abbandonato la nave e il progetto del Popolo della libertà era naufragato per sempre, tornando a essere una coalizione: Forza Italia, penalizzata dalle vicissitudini del Cavaliere; Lega, ora in mano all’esuberante Matteo Salvini, con i consensi ai minimi termini; e Fratelli d’Italia, la nuova formazione post fascista nata dall’epurazione dei finiani moderati dall’estrema destra, con la guida di una giovane romana, Giorgia Meloni.
A quel punto Berlusconi non aveva più i numeri per dettare la linea, limitandosi a fare da collante tra le due visioni ugualmente populiste ed estreme di Salvini e Meloni. Saranno infatti loro, prima uno e poi l’altra, a divenire soci di maggioranza della coalizione.
In questo senso, Berlusconi non ha mai nascosto di essere stato lui a sdoganare gli eredi del fascismo. Non servono analisi particolari, basta ascoltarne le parole nel video che segue.
Questo è forse il suo lascito più pesante. Solo una quindicina di anni fa l’idea di avere un governo guidato dagli eredi di Almirante pareva fantapolitica, eppure eccoci qui. A guardarsi indietro si rischia di cadere nella fallacia del piano inclinato, tanto da considerare i trent’anni di carriera politica di Silvio Berlusconi come una rivisitazione del primo dopoguerra, con i liberali che consegnavano le chiavi del governo ai fascisti. Tuttavia, serve la necessaria onestà intellettuale per rendersi conto che si tratta di eventi diversi, momenti diversi e con diversi outcome.
È molto probabile che quello di Berlusconi non fosse un piano premeditato, ma la conseguenza del suo costante tentativo di proteggere quello che aveva costruito (con quali soldi sia partito rimane ancora un mistero tutto italiano). Questo è sempre stato il suo obiettivo e il suo punto debole, quello che i suoi alleati, più furbescamente dei suoi avversari, hanno sfruttato per sorpassarlo a destra.
Al di là della legittimazione del post fascismo, a ben vedere non rimane altro. Nel 1994 professava la rivoluzione liberale, che non è mai arrivata. Anzi, a tal proposito fece più il sinistrissimo Bersani in pochi anni da ministro che il Cavaliere in quattro governi. Per non parlare della regressione culturale in merito alle libertà individuali. Berlusconi, infatti, non solo fallì il liberalismo economico, ma anche quello della libertà individuale.
La cosa che è rimasta più fissata nella memoria collettiva, soprattutto all’estero, sono gli avvenimenti più pruriginosi, le gaffe ai summit internazionali e la sua vicinanza a dittatori impresentabili come Gheddafi e soprattutto Putin, che a suo modo ha protetto anche durante l’invasione dell’Ucraina tutt’ora in corso: una macchia indelebile sulla sua figura, che niente potrà mai cancellare.
Per questo motivo, ai miei occhi e forse anche a quelli di molti millennial, la beatificazione in corso appare come una pessima operazione di revisionismo. Il lutto e i funerali di Stato sono un’esagerazione di pessimo gusto: si tratta di onoreficenze che si danno di rado a chi ha ricoperto gli stessi ruoli, e la percezione è che sia uno sfregio a chi non li ha ricevuti, pur potendo contare su una reputazione ben più onorevole.
Di converso, è innegabile che con Silvio Berlusconi muoia l’era nella quale noi millennial, più di chiunque altro, eravamo immersi: volenti o nolenti rimarrà un vuoto e ora ci troviamo davanti una nuova pagina bianca, tutta da scrivere.