La ballata del fante Vincenzo (1922-1943)

Il 10 giugno 1940, l’Italia entrava in guerra: un conflitto che portò via tra le sessanta e le sessantotto milioni di vite, tra militari e civili. Questo flusso di coscienza, questa sorta di epigramma, nasce dai verbali di irreperibilità, così di chiamano in gergo militare, del disperso fante Vincenzo, inquadrato nella tristemente nota 8ª Armata e inviato sul Fronte Orientale durante la Seconda Guerra Mondiale.
Dormi sepolto in un campo di grano
F. De André
Non è la rosa non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi
Sono morto che avevo vent’anni. Quasi ventuno, per essere precisi.
Sono morto e di me è rimasto un foglio. Verbale di irreperibilità. Fanno seguito alcuni numeri. “Nato il 16 febbraio 1922 – recita il foglio – in data imprecisata, nella terza decade del mese di gennaio del 1943 risulta disperso”. Non sono visto tra i vivi, non sono riconosciuto tra i morti. Eppure da qualche parte ci sono.
Sono morto con un foglio consegnato alla mia famiglia, riportava la data dell’8 maggio. Erano trascorsi tre mesi dalla data della segnalazione della mia scomparsa. Dicevano di avermi cercato con “indagini esperite in ogni campo e sotto ogni forma”, ma non mi hanno trovato.
Sono tecnicamente disperso, ma da ora sono morto. Come si può pensare di sopravvivere all’inverno russo? Quindi sì, sono morto.
Sono morto e non ho una tomba. Non che una tomba mi cambi qualcosa, proprio no. Nemmeno voglio una lapide di marmo che mi erga a eroe. Avrei voluto solo un luogo per far posare un fiore ai miei cari. Non per me, ma per loro. Io non ci sono più, loro sì. E sarebbe stato giusto che loro, da vivi, si fossero sentiti meglio, anche solo venendomi a trovare.
Sono morto perché sono partito a ottobre. Mi hanno chiamato alle armi e mi hanno arruolato nell’8ª Armata: ARMIR – Armata Italiana in Russia. Un semplice fante, effettivo al 277° Reggimento Fanteria “Vicenza”. Le casualità della vita, è simile al mio nome!
Sono morto sperando in un 1943 migliore.
Sono morto in terra di Russia, in seguito agli eventi bellici avvenuti sul fronte russo tra le località di Scheljakino, Warwarowka e Nikolajewka. Proprio a Nikolajewka, nei giorni della mia dipartita, si è tenuta una battaglia. Verrà ricordata per il grande sacrificio dei commilitoni Alpini.
E di me, qualcuno si ricorderà?
Sono morto, ma non ero da solo. Riporteranno a casa circa undicimila resti dei miei compagni, tra cui forse anche i miei. I miei compagni sono stati consegnati alle famiglie. Dico i miei compagni, perché alla mia famiglia non hanno detto nulla. Se mi hanno trovato, non mi hanno riconosciuto. La mia ultima speranza è quella di riposare nel Sacrario Militare di Cargnacco a Udine. Tra le migliaia di Ignoti, forse ci sono anche io.
Sono morto e non so cosa stia succedendo a casa mia. Cosa dicono che facciamo qui? Cosa dicono dei tanti che pagano con la vita?
Sono morto e forse ispirerò qualche poeta che racconterà di noi, dei nostri anni perduti, dei nostri desideri, delle nostre paure. Ho vissuto i miei vent’anni in trincea, al freddo. Talmente freddo che neanche i ratti ci facevano compagnia.
Sono morto senza un’ultima notte d’amore, non doveva finire così. O forse sì. In un’altra vita incontrerò la mia famiglia, tutti i miei amici, magari anche lei.
Sono morto lasciando agli altri un futuro migliore, almeno così ci dicono. Ho visto quello che è stato. Non vedrò quello che sarà. Spero sia così.
Sono morto come invasore di una terra straniera, senza sapere il perché sono stato inviato in Russia a combattere una guerra che non era mia. Non vorrei fregiarmi di questo titolo, quello di invasore.
Non poteva essere la mia guerra, non poteva essere la nostra. La guerra ha motivazioni alte, grandi e lontane, che noi, chiamati alle armi da una vita tutto sommato normale, non possiamo capire.
E siamo noi che moriamo per primi.
Sono morto che avevo vent’anni. Quasi ventuno, per essere precisi.