Unica, il cortometraggio italiano che ha sfidato la censura cinese
Una troupe italiana ha girato nel Paese con il controllo sociale più stretto al mondo un cortometraggio: Unica. È una storia distopica, in cui un regime liberticida divide la popolazione in belli e brutti attraverso una valutazione basata su parametri oggettivi. La protagonista è Lili (Lili Huang), un’aspirante documentarista che vuole raggiungere l’Europa. Un angioma le impedisce di passare i test, ma la ragazza è disposta a rischiare la vita pur di inseguire i propri sogni. Il corto, che sarà presto disponibile su Rai Play, è stato presentato in anteprima il 23 luglio al Giffoni Film Festival. Lo abbiamo visto in anticipo e abbiamo parlato del progetto con Alessandro Marzullo, regista e sceneggiatore di Unica. Un corto senza budget, girato in Cina senza permessi, in totale libertà, selvaggio. Unico, appunto.
Come nasce Unica?
«L’idea mi è venuta nel 2018 come conseguenza delle cose che stavano succedendo nella mia vita, oltre che grazie all’allineamento di molti astri. Io e un mio collega dell’università, Valerio Chicca, abbiamo realizzato un cortometraggio (Looped Love) che ha vinto un bando del ministero della Cultura. L’assistente alla regia, Camilla Crisciotti, nella ricerca di comparse ha coinvolto sua zia, che lavora al consolato italiano della città di Chongqing [32 milioni di abitanti, quarta città al mondo per popolazione, ndr], in Cina. Si tratta di un luogo poco accessibile e poco noto ai turisti. A sua zia è molto piaciuto il nostro lavoro e ci ha chiesto di raggiungerla al consolato per presentarlo durante la settimana della lingua italiana. Tra lo svolgimento dell’evento e la nostra partenza sarebbero trascorsi alcuni mesi, quindi ci siamo detti: “Perché non approfittare della nostra permanenza in Cina per girare qualcosa di importante?”. E così abbiamo iniziato a scrivere la sceneggiatura».
Perché un film distopico sulla bellezza?
«Guardando le fotografie di Chongqing avevamo la sensazione di trovarci di fronte a uno scenario distopico: grattacieli, colori sfumati, treni che passano dentro le case… unisci a questo la mia passione di bambino per i film di fantascienza, soprattutto quelli americani, ed eccoci qui. Ho scritto la storia insieme a Valerio, la sceneggiatura con Camilla. Avevamo un’idea incentrata sul concetto di bellezza, ma nelle prime stesure lo scritto era basato su situazioni realistiche. Poi abbiamo riflettuto che in un posto come la Cina, dove la censura è dietro l’angolo e vige il controllo dello Stato sulla vita dei cittadini, per esigenze filmiche e pratiche ci sarebbe stato più facile lavorare “fuori dalla realtà”. In questo modo potevamo dire alla gente del posto “non sto parlando di voi”, rendendo tutto più semplice. Inoltre, l’ambientazione ci permetteva di presentare il corto come distopico senza neanche passare per gli effetti speciali: era tutto vero, nella finzione. E quale altra occasione avremmo avuto di fare un film di fantascienza, con un setting così naturale, se non quella? Era un’opportunità grandissima per noi, per me, per esplorare il racconto distopico. Poi, alla fine, il genere non è che il vestito di una storia: avremmo potuta raccontarla in molti altri modi».
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Come si organizza una partnership con una produzione cinese? Avete preso accordi o improvvisato?
«Stando alla legge locale, tu dovresti incontrare la delegazione di una produzione cinese e parlarci attraverso organi ministeriali, che aiutano a sviluppare questa sinergia. Soprattutto, se vuoi girare qualcosa in Cina, il governo deve approvare la sceneggiatura. Il che non è semplice… Nel nostro caso non l’hanno neanche vista. Questo non significa che non abbiamo avuto problemi: ci siamo dovuti accordare con un regista-produttore locale. Questo perché Chongqing non è una città avvezza al cinema, non è come Roma o Milano, si ha anche difficoltà a trovare le attrezzature, i professionisti, le comparse, quindi avevamo bisogno di un “gancio” sul posto. Vernon Chen, questo il suo nome, è un autodidatta, una celebrità del posto in quanto unico regista di tutta la città. Si è offerto di aiutarci. Inizialmente, doveva essere una cosa piccolissima, di due o tre minuti, fatta in maniera simpatica per promuovere la città. Con l’avvicinarsi della nostra partenza, però, l’idea si è via via trasformata in un cortometraggio».
Non solo Italia e Cina: il direttore della fotografia è lo spagnolo Pepe Gay. Come lo avete trovato? Come lo avete convinto a seguirvi fino a Chongqing?
«Conoscevo diversi ragazzi italiani che fanno i direttori della fotografia, anche ad alti livelli. Ho proposto loro di venire in Cina e girare con me, ma queste persone inizialmente dicevano “sì, dai, bellissimo”, salvo poi tirarsi indietro in massa al momento di passare ai fatti. Mi sono quindi rivolto all’estero. Grazie alle opportunità scaturite da Looped Love abbiamo avuto la possibilità di partecipare a numerosi festival, uno di questi a Malaga. In quella circostanza ho conosciuto un ragazzo particolarmente bravo che faceva il direttore della fotografia, con cui mi sono trovato molto bene. Quando qualche tempo dopo gli ho proposto di unirsi a me, però ha declinato l’offerta per ragioni lavorative. Tuttavia, mi ha raccomandato il suo assistente, Pepe. Non ci conoscevamo, così ha organizzato una videochiamata per capire se ci fossero margini di trattativa. Pepe ha accettato con entusiasmo e ci ha seguiti fino a Chongqing: ci siamo conosciuti solo all’imbarco del volo».
Quanto è stato difficile girare in Cina? Che tipo di supporto vi hanno fornito la produzione locale e il consolato italiano?
«Eravamo quattro gatti, con pochissima esperienza, senza soldi. Nessuno ci voleva far girare. Le persone che ci ospitavano si fidavano poco. Filmavamo le scene come se non stessimo girando un film: facevamo un’inquadratura, subito dopo l’attore inquadrato, Giuseppe Cristiano (l’altro protagonista), veniva, prendeva la luce, la teneva, aiutava a fare quella successiva… era tutto così. È stato molto difficile, non ho mai avuto la sensazione che stessimo girando un film con tutti i crismi di una produzione normale. Mi sembrava più che in ogni momento della giornata dovessimo capire, studiare e cercare di portare la scena a casa come fossimo fantasmi, ladri, ninja… Andare in un posto, girare, rubare, poi tornare indietro e andare subito in un altro posto, senza lasciare tracce, senza farci notare, senza farci sentire. Inoltre, non avevamo alcun supporto logistico: era impossibile muoversi in quella città, in quel Paese, senza dei contatti locali.
Anche perché, in Cina, non è che arrivi e vai nel primo hotel che trovi: non tutti gli alberghi accettano gli stranieri, devi andare in luoghi deputati a ospitare stranieri. Il consolato italiano ci ha aiutato a trovare l’alloggio e ci ha indirizzato nella cultura cinese, che è completamente diversa da quella italiana. Non sto parlando solo di usi e costumi, ma di comunicazione: il modo in cui comunichi con un cinese non quello che usi con un occidentale. Tra due italiani la comunicazione segue una certa codifica, mentre lì era tutto diverso. Eravamo stati informati, ma quando siamo arrivati lì abbiamo capito che le differenze erano molto più marcate di quanto immaginassimo: anche solo per ordinare al ristorante, non parlando cinese, abbiamo dovuto telefonare al consolato e farci tradurre tutto, non capivano neanche il nostro modo di disegnare quando provavamo a spiegarci con le figure.
Vernon, co-produttore di Unica, ci ha aiutato a orientarci e a trovare i luoghi dove girare. Senza di lui sarebbe stato impossibile, dato che Chongqing è una città da 34 milioni di abitanti, sembra Gotham City, tutta fatta di grattacieli, molto ridondante. Va anche detto che ogni volta che ci muovevamo attiravamo orde di curiosi: lì non vedono quasi mai un occidentale, ci guardavano neanche fossimo marziani».
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Nel settore dell’intrattenimento sta prendendo sempre più piede il formato della serialità, piuttosto che quello del lungometraggio. Perché tu hai scelto il corto?
«Il cortometraggio è uno strumento mediale perfetto per sollevare questioni e lasciarle irrisolte: io mi sono posto delle domande, le risposte le dovrà cercare lo spettatore, senza che sia io a suggerirgli questa o quella soluzione. La distopia, per altro, ci permette di porci ulteriori domande sulla realtà che viviamo: è l’esasperazione di aspetti già esistenti».
Avete fatto un viaggio lungo e spericolato fino alla Cina: perché limitarvi a girare 15 minuti e non osare di più?
«Anche solo girare 15 minuti in Cina ha richiesto uno sforzo titanico. Inoltre, la lavorazione è durata due anni, data la complessità del lavoro. Fare questo sforzo per un prodotto che alla fine non verrà distribuito, di soli 15 minuti, potrebbe sembrare da pazzi, ma noi viviamo per questo. Amiamo fare i film, a prescindere dal valore di mercato che questi possono avere: è la nostra spinta alla vita, che altrimenti sarebbe noiosa, piatta, basata sullo stipendio, come quella di tutti gli altri. Tanti ci hanno detto che eravamo illusi, pazzi, che mai saremmo riusciti a fare questa cosa. Ci hanno tacciato di essere bugiardi. Il cortometraggio li smentisce. Quando siamo tornati indietro, invece, ci hanno accusato di essere ricchi, di avere avuto un sacco di soldi per farlo, e invece tutto questo è stato realizzato con un budget ridicolo. Le persone possono pensare quello che vogliono, ma la verità è che noi facciamo i film perché ci hanno fatto sognare, ci fanno sognare: vogliamo restituire la stessa emozione. E poi, come dicevo, girare lì era proibitivo (oltre che proibito): ogni volta che riuscivi a portare a casa una scena avevi quella bella sensazione di poter tirare un sospiro di sollievo, che non saresti stato fermato o – peggio – arrestato, ed era così tutti i giorni. Poi, la mattina dopo, di nuovo l’inizio della fine. Scendevi dal letto, andavi per strada e iniziavi a girare con le stesse paure: essere sbattuto in galera, rovinare tutto, perdere il materiale. Se mi chiedi a distanza di qualche anno: “Come siete riusciti a fare questa cosa?”… credimi, non lo so. È andata così, ed è andata bene».