La popolazione mondiale cresce ma l’Italia è in piena crisi demografica
Che l’Italia sia in piena crisi demografica non è certo una novità. La decrescita del tasso di natalità è tutt’altro che felice e senza conseguenze. «Si fanno pochi bambini» lamentano le generazioni attuali di nonni – o aspiranti tali. «Le coppie oggi preferiscono avere un cane che un figlio» ha detto il Papa durante un Angelus di qualche tempo fa, con tono di biasimo misto a sincera preoccupazione.
Le sue parole sono state prontamente smentite – numeri alla mano – dall’Enpa, che nel rapporto Eurispes del 2022 ha documentato come a possedere animali di affezione siano soprattutto le coppie con figli (37,8 per cento). Il nodo della questione però resta, ed è urgente.
In proposito, l’Eurostat ha pubblicato questa settimana l’ultimo report alla situazione demografica in Europa. Il focus sull’Italia è piuttosto allarmante: entro il 2100 saremo poco più di 50 milioni o, per dirla in soldoni, un italiano su sei non ci sarà più.
Crisi demografica, Istat: un italiano su quattro è over 65
Gli indicatori dell’istituto nazionale di statistica sul 2022 riferiscono 7 neonati e più di 12 decessi ogni 1000 abitanti. Le nascite sono scese sotto la soglia (già critica) delle 400mila unità: si fermano a 393mila. È la prima volta dall’unità d’Italia. Parliamo del minimo storico, ma la parabola discendente è iniziata trent’anni fa. Il primo primato negativo si registrò nel 1993: per la prima volta ci furono più morti che nuovi nati nel nostro Paese.
Le ultime proiezioni arrivano dopo quelle sulla Cina di inizio anno che hanno destato clamore e incredulità. Persino nel Paese più popoloso del globo si è registrato il primo calo demografico degli ultimi sessant’anni, di ben 850 mila persone. Alla fine del 2022, infatti, il Paese contava poco meno di un miliardo e mezzo di abitanti, ma anche per loro i decessi hanno superato le nascite. Negli anni a cavallo del secolo contemporaneo il fenomeno è rimasto costante – fatta eccezione per il 2004 e il 2006 – fino al 2015, quando lo scarto annuale tra morti e nati ha iniziato a essere di 100mila persone, prima di precipitare drammaticamente con la pandemia. Nel 2020 e il 2021, infatti, l’impennata dei decessi ha fatto registrare uno scarto di 300mila persone.
L’inverno demografico è la piaga condivisa del XXI secolo
Gian Carlo Blangiardo, presidente uscente dell’Istat, ha esordito così nel suo intervento tecnico-scientifico all’assemblea del Forum delle famiglie. «Negli ultimi quattro anni l’Italia ha perso un milione di abitanti. Senza la nostra dimensione demografica, non saremo più un grande Paese». E lo ha motivato, aggiungendo al quadro un dato molto concreto «Ogni anno facciamo il record della più bassa natalità di sempre. Nei primi undici mesi del 2022, rispetto agli stessi mesi del 2021, un ulteriore 3 per cento di nati in meno». Questo contestualizza e spiega anche il dato Eurostat per il 2100: la quota di persone in età lavorativa (20-64 anni) dovrebbe diminuire dal 59 al 50 per cento. Non è un caso che il Paese viva da anni continue riforme pensionistiche che penalizzano i lavoratori, costretti ad avere diritto alla pensione di una vita in età sempre più avanzata.
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Ed è secondo questo passo “claudicante” che l’ufficio statistico europeo ha calcolato un calo del 15 per cento per il nostro Paese. È più del doppio rispetto alla media europea nello stesso lasso temporale (6 per cento) che porterà l’Ue a passare dai 451 milioni di inizio 2023 ai 420 nel 2100. Per avere un termine di paragone, la variazione demografica negli altri Paesi europei al 2100 sarà ben diversa. La Spagna, a cui siamo spesso soliti accostarci per similarità di caratteristiche (e problemi) socio-economiche, passerà da 47,4 a 45,1 milioni, mentre Germania e Francia cresceranno persino: la prima da 83,2 a 84,1 milioni e la seconda da 67,8 a 68 milioni.
D’altronde siamo il primo Paese al mondo in cui gli under 15 sono meno degli over 65. Di conseguenza, anche il Paese europeo che ne ha in misura maggiore (22,5 per cento) seguiti da Finlandia, Grecia, Portogallo e Germania, senza avere però il contro bilanciamento di nuove nascite che hanno loro. Secondo questi dati dunque, nel 2100 questa fascia d’età rappresenterà il 32 per cento della popolazione a fronte del 21 attuale.
Il circolo vizioso italiano del “degiovanimento”
«L’Italia è un malato la cui diagnosi è chiara e si conoscono anche quali sarebbero le terapie». È questo l’incipit eloquente del presidente Istat, che aggiunge: «Qualcosa si è fatto, però bisogna continuare in quella direzione e accentuare alcuni aspetti. Penso soprattutto alla conciliazione vita-lavoro perché il tema non è solo il costo dei figli, ma i figli che vincolano e condizionano i progetti di vita. Quindi l’idea di un avere un bambino piace, ma le coppie aspettano. Conosciamo quali sono i punti deboli».
Questa breve dichiarazione condensa in buona parte l’agglomerato di concause che impediscono al Paese di crescere numericamente e alle coppie di “potersi permettere” di avere un figlio. E se ne ha uno, il secondo per la maggioranza è un privilegio, un terzo (che statisticamente, rovescerebbe la tendenza attuale di non riuscire neppure a “rimpiazzare” i due genitori per tenere il sistema almeno un equilibrio, se non si può ambire alla crescita) è del tutto inconcepibile.
D’altro canto, la realtà è evidente. Come ha ben spiegato il professor Alessandro Rosina, ordinario di Demografia all’Università Cattolica di Milano e autore del libro Crisi demografica. Politiche per un paese che ha smesso di crescere (Vita e Pensiero, 2022) – nonché del neologismo “degiovanimento”: «Va poi considerato che la denatalità tende ad autoalimentarsi, innescando un avvitamento continuo verso il basso: La carenza di risorse, come conseguenza di più debole crescita e maggior spesa per le voci che riguardano le generazioni anziane, può rendere meno generosi gli investimenti verso le nuove generazioni – formazione, welfare attivo, strumenti di autonomia e politiche familiari – tanto più in un Paese con alto debito pubblico. La crisi rischia, quindi, di vincolare progressivamente il paese in un percorso di basso sviluppo, basse opportunità e basso benessere».
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Calo demografico: il lavoro che non c’è per tutte non aiuta
Da oltre 35 anni a questa parte, il numero medio di figli per donna è sceso sotto l’1,5. La questione che in Italia non si fanno figli è spesso banalizzata con l’adagio qualunquista e astratto del “non ci sono le possibilità”.
Ma quali sono le cause? Tante, ma si può partire intanto da due macrofattori: il gender pay gap, che si riversa molti aspetti della sfera privata e professionale delle donne, e i problemi di infertilità (sempre più comuni) che a quanto emerge, le nuove generazioni hanno ricevuto in dote, non è certo se dalla genetica o dall’ambiente.
Il primo livello è il più lampante: la discriminazione che le donne subiscono nell’accesso al mercato del lavoro. «Viviamo in un Paese dove non lavora neppure una donna su due (49 per cento)» ha dichiarato in un suo intervento istituzionale la direttrice della Nazione Agnese Pini, sollevando un’altra questione annessa, cioè la mancanza in Italia della “cultura della paternità”, di cui si discute ancora molto poco. Sappiamo bene la grossa disparità che c’è in Italia tra il congedo di maternità e quello di paternità e ciò sottende una cosa che non si ammette spesso (specie ai piani alti delle cariche decisionali) ma che si tocca quotidianamente con mano: il ruolo di cura è affidato in modo esclusivo alle donne, per retaggio di una culturale profondamente patriarcale, come è quella italiana. Infatti, anche quando queste riescono ad emanciparsi dal relegamento domestico, il carico mentale e concreto delle “questioni pratiche di casa” è completamente sbilanciato sulla quota femminile della coppia. Lo spiega magistralmente Annalisa Monfreda nel saggio Ho scritto un libro invece di divorziare (Feltrinelli, 2022).
Incentivare la genitorialità per tutti, tra infertilità e vuoti normativi
Il secondo livello invece riguarda i problemi di fertilità. In questo caso, non abbiamo l’esclusività, questi problemi infatti colpiscono tutti, E in modo equo e democratico a quanto rivela Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms, che il 4 aprile ha pubblicato un rapporto che quantifica il fenomeno: ne soffre una persona su sei nel mondo, senza alcuna “discriminazione” tra i Paesi ad alto e basso reddito. Per questo c’è la «necessità urgente» di accrescere l’accesso a cure adeguate, a prezzi accessibili e di alta qualità, per coloro che ne hanno bisogno. Sembrano le stesse considerazioni che si facevano durante la pandemia nei confronti del virus Covid-19. La differenza in questo caso però è che, come ricorda Blangiardo, noi sappiamo esattamente qual è la cura, ma ci perdiamo per strada.
L’Italia ovviamente nemmeno su questa casistica può chiamarsi fuori. Sono almeno 250, infatti, le coppie che ogni anno si rivolgono alla maternità surrogata e si tratta per il 90 per cento di coppie eterosessuali sposate infertili. La fecondazione eterologa (o procreazione medicalmente assistita, PMA) è stata introdotta in Italia con la legge 40/2004 per coppie infertili, sposate o conviventi, (purché) eterosessuali.
Di conseguenza, tutto il dibattito in corso sulla trascrizione dei certificati di nascita per i figli delle coppie arcobaleno, con la proposta della ministra Roccella di convertire la gestazione per altri praticata all’estero da coppie omosessuali in “reato universale” sarà senz’altro decisivo negli esiti definitivi nell’ottica della crescita demografica.
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Gli esperti sulle soluzioni alla crisi demografica
La sociologa Chiara Saraceno, intervistata da Cristiana Bedei, ha delineato una posizione controcorrente: «Fare figli deve assolutamente rimanere una scelta di libertà. Non si fanno figli per la patria, piuttosto che politiche di incentivo, servirebbe agire sui vincoli che limitano questa libertà.
Magari ispirarsi a Paesi in crescita come Germania e Francia, dove viene garantito l’accesso gratuito agli asili nidi o aumentare l’assegno unico e universale per i figli introdotto nel 2021, oltre ad allungare e pagare di più i congedi parentali».
Rosina riprende parte di questi concetti, ipotizzando che il ritardo nell’applicazioni di alcuni provvedimenti dipenda «dalla convinzione che investire sulla demografia non produca risultati immediati spendibili. Questo però è vero solo in parte. Ad esempio, le misure che rafforzano l’autonomia e l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro hanno ricadute di breve periodo sull’occupazione dei giovani oltre che favorire la formazione di nuovi nuclei familiari e quindi la natalità, che a sua volta riduce gli squilibri futuri. Lo stesso vale per le politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia, come gli asili nido, che favoriscono nell’immediato l’occupazione delle donne con figli ma anche la scelta di avere figli per le donne occupate».
Il problema, secondo il professore, è un mix letale di deterrenti: sguardo temporale corto, bassa consapevolezza dell’importanza delle politiche familiari per lo sviluppo del paese e marginalità delle politiche per i giovani e per le donne. . E conclude: «La conseguenza è l’alta percentuale di Neet (i giovani che non studiano e non lavorano), una lunga dipendenza economica dalla famiglia di origine, un’età al primo figlio che risulta mediamente la più alta in Europa, una continua revisione al ribasso delle proprie scelte di vita e professionale».