Quale pace per l’Etiopia e il Tigray?
Il 2 novembre 2022 Redwan Hussein, consulente per la sicurezza nazionale del primo ministro dell’Etiopia Ahmed Abiy, e Getachew Reda esponente di spicco nonché portavoce del TPLF (Tigray People Liberation Front), hanno firmato uno storico accordo di pace ponendo fine al conflitto tra il governo federale etiope e le milizie del Tigray scoppiato due anni prima.
Quale guerra?
Nella notte tra il 4 e il 5 novembre del 2020 alcune milizie del TPLF, partito di lotta armata della regione del Tigray e a lungo prima forza politica del Paese, hanno attaccato un deposito militare federale a est della regione, uccidendo alcuni militari e sequestrando armi, munizioni e mezzi militari. La risposta del presidente Abiy è stata rapida e feroce: bombardamenti sulla capitale della regione, Mekelle, invasione armata del Tigray e conseguente mobilitazione per una guerra totale. Il conflitto, scatenatosi a seguito di una serie di dissapori politici tra la classe dirigente del Tigray, a lungo al potere in Etiopia, e il primo ministro nonché premio Nobel Ahmed Abiy, è a tutti gli effetti una guerra etnica, poiché a base etnica è la stessa democrazia federale del Paese.
Abiy, di etnia Oromo, la più numerosa della nazione, è salito al potere nel 2018 sostituendo il tigrino Hailé Màriam successore del compianto Meles Zenawi (anche lui tigrino), padre della moderna Etiopia. Tale passaggio di consegne non ha mai incontrato i favori del TPLF che, infatti, dopo essersi ritirato dalla coalizione di governo, ha iniziato a criticare aspramente l’operato del Primo Ministro. Sulla scia del dissenso, poi, il Tigray ha indetto a settembre 2020 le elezioni regionali, nonostante il divieto governativo in nome dell’emergenza pandemica. Le elezioni, vinte dal TPLF, non sono state riconosciute da Addis Abeba che, anzi, ha condannato e dichiarato inammissibili i risultati, scatenando l’ira del TPLF. Lo scoppio del conflitto ha esasperato la volontà autonomista e indipendentista del Tigray da un lato; dall’altro, l’intenzione da parte di Abiy e della nuova classe politica, di reprimere e sedare definitivamente il TPLF e il popolo tigrino.
Quale alleato?
La guerra civile si è protratta a lungo, spesso nel silenzio generale – complice probabilmente l’emergenza pandemica – e ha visto il coinvolgimento attivo anche dell’Eritrea al fianco dell’esercito federale. Secondo diversi report le milizie eritree si sono distinte per la violenza dei massacri, degli stupri e dei saccheggi a danno dei civili tigrini, riuscendo a prendere il controllo di gran parte dei territori settentrionali della regione. È risultata, dunque, strategica la riapertura del confine tra le nazioni avvenuta l’11 settembre del 2018 per volere proprio di Abiy. Il Primo Ministro etiope, oltre a ricevere il premio Nobel per tale iniziativa, ha (preventivamente, abilmente, casualmente?) anche posto le basi di una alleanza per una strategia di accerchiamento della regione governata dal TPLF.
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Quale pace?
Il conflitto che in due anni ha fatto registrare più di 600mila vittime, quasi due milioni di sfollati e ha generato una crisi umanitaria senza precedenti, si è concluso lo scorso novembre con la firma di un accordo per la cessazione delle ostilità da parte dei delegati delle due fazioni. L’incontro, svoltosi a Pretoria in Sudafrica grazie alla mediazione dell’Unione Africana, ha decretato la rinuncia da parte del TPLF all’indipendenza del Tigray, il conseguente reintegro del governo regionale in quello centrale di Addis Abeba, il disarmo della regione, l’accesso di aiuti umanitari e una promessa di ricostruzione delle infrastrutture danneggiate da parte del governo federale.
Nelle settimane successive all’accordo di pace, in Tigray sono state ripristinati i servizi e le telecomunicazioni, hanno riaperto alcune delle banche e molti degli sfollati hanno potuto fare ritorno alle loro case. A inizio gennaio sono ripresi anche gli accordi commerciali tra l’Etiopia e alcuni dei suoi partner più importanti quali USA e Unione Europea, nonostante le richieste di indagini sui crimini di guerra da parte dei ministri degli esteri di Francia e Germania (Colonna e Baerbock) in visita ad Addis Abeba. Filippo Grandi, alto commissario per le Nazioni Unite per i rifugiati, a inizio febbraio ha visitato i campi profughi della regione con l’intento di sollecitare l’invio di aiuti umanitari da parte delle agenzie umanitarie.
Anche l’esercito eritreo, che in larga parte occupava e presidiava la parte nord del Tigray, ha dichiarato di aver avviato le procedure di ritiro presso i confini nazionali, anche se continuano le denunce per il perseguire dei crimini da parte delle milizie.
Nonostante ciò, la situazione è ben lungi dall’essere risolta: i beni primari ancora scarseggiano, gli aiuti medici sono esigui e alcune città come Adigrat, roccaforte del TPLF, necessitano di una completa ricostruzione. A preoccupare molti, poi, è l’instabilità del Paese e il timore che questa pace non sia durevole; d’altronde l’accordo siglato lo scorso novembre è solo l’inizio dei processi di pace, spiegano i negoziatori coinvolti.
Cosa ne pensano i giovani del Tigray
Della guerra e della pace ne abbiamo parlato con Filimon e Maykil, due ventenni tigrini che hanno vissuto il conflitto sulla loro pelle, sono sopravvissuti e ora tentano di ripartire [le brevi interviste sono state condotte tramite app di messaggistica quali WhatsApp e Messenger; le parole riportate sono una traduzione ad opera dell’autore, ndr].
QUALE OPINIONE TI SEI FATTO DELLA GUERRA?
F: «La guerra è stata totalmente inutile, è partito tutto da un grande disaccordo tra il TPLF e il governo federale. Lo hanno esasperato al punto che è diventato un genocidio e una guerra totale contro il Tigray e il suo popolo. La guerra, poi, ha mangiato tutta la nostra economia e l’economia del Corno d’Africa. Il prezzo di qualsiasi cosa è aumentato di tre volte rispetto a quello di prima. E poi non c’è nessun vincitore, perché la pace ha praticamente riportato tutto com’era prima dello scoppio del conflitto. Quindi non è cambiato niente se non che ci sono migliaia di morti e di sfollati, persone che hanno perso tutto: casa, famiglia, amici. L’Eritrea è l’unica parte che ha beneficiato di questa guerra, si sono divertiti a distruggerci e a massacrarci».
M: «Non è stata una guerra, è stato un completo genocidio! Il governo federale ha trovato l’occasione per distruggere il TPLF e per eliminare il popolo tigrino. Ci è stato chiesto di essere etiopi o di essere tegaru [termine con il quale i tigrini d’Etiopia definiscono sé stessi, ndr) e noi abbiamo scelto di essere tegaru. Per questo hanno ucciso i nostri fratelli e stuprato le nostre sorelle».
COSA NE PENSI DI QUESTA PACE, QUINDI?
F: «Possiamo solo essere felici perché con la pace hanno risparmiato altre vite innocenti, ma rimane l’emergenza. C’è la più grande carestia che si sia vista in Etiopia dagli anni Ottanta, le nostre case sono distrutte. Non serve a niente la pace se tutto rimane così».
M: «Secondo te è vera? Secondo me no. Siamo ovviamente felici che possiamo finalmente ricevere gli aiuti che ci servono: medicine, cibo e tutto ciò che è utile per sopravvivere. Ma non possiamo essere felici se pensiamo a tutto quello che ci è successo. Come si può dimenticare? Come possiamo perdonarli per quello che hanno fatto? Si sono alleati con i nostri nemici e li hanno invitati a ucciderci. Tutti gli etiopi hanno partecipato a questa uccisione di massa e ne sono responsabili, nessuno escluso. Non è giusto che nessuno paghi per quello che hanno fatto».
COME È STATA ACCOLTA LA PACE DAL POPOLO DEL TIGRAY, INVECE?
F: «Tutti pensano che la pace sia necessaria, il popolo non voleva questa guerra, ma si è ritrovato a combattere per la sua libertà. Il Tigray è come una nazione e vuole essere una nazione, questa idea è oggi ancora più forte».
M: «La pace è stata accolta bene, tranne per alcuni soldati che non si sono arresi e continuano a nascondersi nelle foreste. Non credo, però, che riusciranno a fare qualcosa, nessuno vuole più combattere».
COSA PENSI CHE SUCCEDERÀ ORA?
F: «Noi non sappiamo cosa hanno deciso con l’accordo di pace, come si spartiranno il potere. Il nostro futuro è incerto, la nostra paura è che Abiy possa aver rafforzato la sua posizione, ormai è un dittatore!».
M: «Nessuno lo sa, gli aiuti che arrivano sono pochi, le nostre case sono distrutte, non c’è futuro qui. Il futuro del Tigray sarà quello di essere una regione povera sia a livello politico che economico, nonostante il popolo sogni l’indipendenza».
CREDI CHE IL CONFLITTO POSSA TORNARE?
F: «Se tornerà, la guerra cambierà direzione: il Tigray e l’Etiopia contro l’Eritrea!»
M: «Secondo me sì, non può finire così questa storia».
ALLA LUCE DI TUTTO CIÒ, COSA HAI INTENZIONE DI FARE?
F: «Come già sai, io ho intenzione di andarmene da qui. Sono già scappato dal Tigray e spero di riuscire a volare via da questo Paese, non voglio più stare in Etiopia».
M: «Non so cosa farò, qui non c’è lavoro, non c’è niente, Adigrat è distrutta, non ci sono opportunità per me. L’unica cosa che so è che non voglio più vivere in Africa».
Quella in Tigray è stata la guerra civile più cruenta e feroce degli ultimi anni, una guerra passata sotto traccia che ha minacciato e minaccia ancora l’integrità dello Stato del Corno d’Africa. Un conflitto che sembra ancora non essersi concluso del tutto, le cui conseguenze maggiori le hanno subite, come in ogni guerra, i civili, le persone normali, coloro che sono stati costretti a combattere, a nascondersi, a subire, a scappare, coloro che sono morti inutilmente. Quale futuro attende, dunque, il popolo etiope? Il Tigray e i tigrini sembrano non aver abbandonato l’idea separatista, Abyi non permetterà altri tentativi di rivoluzione, l’Eritrea difficilmente resterà a guardare. Può questa pace durare a lungo?