No, non è il governo più a destra di sempre
La prima presidente del Consiglio donna della storia italiana ha giurato di fronte al capo dello Stato. Meno di un mese dopo le elezioni, si insedia la squadra del governo Meloni I. Pochi tecnici, molti politici, tre partiti su quattro della coalizione hanno i loro rappresentanti nell’esecutivo.
Qualcuno lo ha definito “il governo più a destra della storia italiana”. Checché ne dicano Verdi e Sinistra italiana, non è così. In primo luogo, perché gli stessi tre partiti hanno già governato insieme più volte, ultima delle quali dal 2008 al 2011 con una maggioranza persino più ampia di questa. In secondo luogo, perché per temi e scelte nei dicasteri il governo Conte I era molto, molto più a destra di questo (qualcuno si ricorda di Paolo Savona all’Economia, bocciato dal Quirinale?).
A far pendere il giudizio di Bonelli, Fratoianni e sodali, forse, la differente distribuzione di seggi e ministri rispetto al governo Berlusconi IV: all’epoca era il partito sulla carta più centrista, Forza Italia (ai tempi Popolo della libertà, con dentro anche l’attuale Fratelli d’Italia, Alleanza nazionale), ad avere più peso. Oggi è la formazione di Meloni a dominare la scena. C’è chi, non a torto, ha ribattezzato per questo motivo l’alleanza “destracentro”, più che centrodestra. Ma in campagna elettorale FdI ha cambiato radicalmente rotta, passando da partito populista di opposizione a rassicurante formazione conservatrice. Niente più cannoneggiamenti ai migranti, addio blocco navale, sepolta l’ascia dell’euroscetticismo. La premier ha scambiato gli storici capisaldi per un grosso, appetitoso piatto di lenticchie chiamato presidenza del Consiglio.
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Ben consapevole di quanto per governare servisse una validazione esterna (Unione europea, Stati Uniti, Nato), Meloni ha fagocitato le idee popolariste di Silvio Berlusconi, riposizionandosi al centro e prendendo buona parte degli elettori del Cavaliere. Atlantismo, centralità europea, politiche economiche prudenti sono le direttrici su cui si fonda la linea della squadra di governo. A questi, va detto, si aggiungono una certa stravaganza semantica nella scelta dei nomi dei dicasteri (“Istruzione e Merito”, “Politiche del Mare e Sud”, “Agricoltura e Sovranità alimentare”, “Imprese e Made in Italy”…), che mescolano a termini tradizionali un esotico e buffo patriottismo.
Ma, più che la forma, interessa la sostanza. I nomi scelti, al netto di alcuni compromessi obbligati (Matteo Salvini alle Infrastrutture…) evidenziano un dato: la stagione del populismo sembra aver ceduto il passo al ritorno dei conservatori. A risentire di più di questa svolta saranno i diritti: la scelta di una ministra come Eugenia Roccella per il ministero della Famiglia, della Natalità e delle Pari opportunità (…) pare preclusiva rispetto alle rimostranze delle minoranze LGBTQI+.
Ora, la vera incognita per il futuro: “Quanto resisterà questo governo?”. La domanda, di per sé, pare assurda: grazie alla cervellotica legge elettorale con cui si è votato il 25 settembre, il 43 per cento alle urne ha garantito al centrodestra la maggioranza assoluta in entrambe le Camere. Cosa potrebbe andare storto, quindi? Le variabili sono molteplici.
1) Noi moderati, nonostante sia parte della coalizione, non ha ottenuto alcun dicastero. Maurizio Lupi, leader della formazione, dopo le consultazioni è andato via da Roma contrariato. O gli verrà garantito un ruolo di prestigio, magari qualche sottosegretario o viceministro, o il suo plotone di parlamentari potrebbe decidere di agire di conseguenza.
2) La percentuale bassa di voti raccolta dalla Lega alle ultime elezioni (8 per cento circa) ha reso la leadership di Salvini traballante. Al momento nel partito la lotta al potere sembra scongiurata, nonostante il flop alle urne, ma con la fine dei mandati regionali di Luca Zaia e Massimiliano Fedriga qualcosa potrebbe muoversi. Con l’ex segretario Roberto Maroni spettatore interessato. Intanto, una grossa fetta di militanti fedeli alla guida storica Umberto Bossi ha creato una corrente interna di matrice nordista. Le imminenti elezioni in Lombardia saranno il primo banco di prova.
3) Forza Italia è nel caos. Licia Ronzulli, fedelissima di Berlusconi, è invisa agli alleati e, nonostante abbia cercato di ingraziarseli con dichiarazioni al miele, pare essere sgradita anche ad alcuni suoi colleghi. La fuga di personalità di peso come le ex ministre Mariastella Gelmini e Mara Carfagna ha acuito le lotte interne per ereditare la leadership del Cavaliere. Che, dal canto suo, appena apre bocca crea grossi grattacapi a Meloni, come dimostrano gli audio trapelati via LaPresse.
4) L’atlantismo del governo, seppur evidente sulla carta, cozza con le posizioni di molti leghisti di peso (Fontana, Salvini e altri) e di Silvio Berlusconi (sulla carta atlantista, nei fatti grande amico di Vladimir Putin e favorevole alla sostituzione di Zelensky e soci con “un governo di persone perbene”). A Meloni l’arduo compito di tenere a bada i bollenti spiriti dei suoi sodali.
Oltre a queste fratture interne, la maggioranza di centrodestra dovrà barcamenarsi in un contesto non certo semplice. Inflazione, guerra in Ucraina, tensioni sociali, crisi energetica: non si può certo dire che la prima donna a Palazzo Chigi abbia la strada in discesa. Mario Draghi, assieme alla campanella, ha passato a Meloni un compito non semplice: fare da nocchiera a questa nave in gran tempesta.