Il rock ‘n’ roll è stato anche un fenomeno di consumo
Su TikTok e Instagram ha spopolato in questa estate caldissima il video di un addetto alla sicurezza che, durante il concerto Love Mi, organizzato da Fedez e J-Ax in Piazza Duomo, a Milano, si lascia sfuggire delle smorfie di incredulità per le espressioni volgari che riempivano i testi delle canzoni di Blauer e che i ragazzi urlavano a gran voce sotto il palco. L’uomo, ripreso inconsapevolmente, è diventato subito virale sul web, al punto da riaccendere un dibattito mai sopito: è solo un boomer che non capisce il linguaggio delle nuove generazioni oppure sono i giovani ad aver preso una deriva volgare e diseducativa?
Il conflitto intergenerazionale non è una novità. La reazione dell’uomo è molto simile a quella che, diversi anni fa, hanno avuto padri, madri e nonni nel vedere Elvis Presley muovere il bacino in modo provocante e allusivo. Anche il rock ‘n’ roll, come la trap oggi, ha generato negli anni Cinquanta sgomento e disapprovazione tra gli adulti. Il resto è Storia.
Il 1954 è l’anno del successo di vendita planetario del 45 giri, il formato di disco in vinile che raggiunge milioni di copie. Nell’aprile dello stesso anno, come una scheggia impazzita nel cielo della discografia, Bill Haley e i suoi Comets registrano Rock Around the Clock, la canzone destinata ad accreditare il bandleader come il precursore inconsapevole di un nuovo genere musicale. Il successo arriverà un anno dopo, quando Richard Brooks la sceglierà come colonna sonora de Il seme della violenza, portandola in vetta alle classifiche americane Billboard Hot 100 per due mesi. Sono gli Stati Uniti la finestra sul mondo da cui si affaccia il rock ‘n’ roll: un fremito rapido e incalzante, nelle cui vene scorre il sangue del blues e del gospel più black e del country e del western più white.
La Seconda guerra mondiale aveva lasciato un senso di smarrimento, uno shock tale da apparire come un punto di non ritorno, soprattutto per i giovani: il disorientamento si trasforma presto in rigurgiti di isteria collettiva, che sfociano in un’ondata di violenza. Gli anni Cinquanta, con il boom economico, vedono un acuirsi del fenomeno: la società del benessere aumenta nei ragazzi la consapevolezza di essere “altro” rispetto agli adulti. Da qui, un senso di mortificazione dovuto all’obbligo di partecipare del loro stesso apparato ideologico, estetico e musicale. In un primo momento si punta sul jazz come forma identitaria originale, ma i giovani sono consapevoli che anche questo genere è antiquato: serve qualcosa di moderno, capace di rappresentarli.
Il rock ‘n’ roll arriva come una bella notizia, una di quelle che si aspetta da tanto. È il punto di arrivo del processo di assorbimento e digestione “bianca” del “nerissimo” rhythm and blues, di quella race music che era stata frutto delle ondate migratorie del secondo dopoguerra.
L’erotismo sprigionato dall’espressione “dondola e rotola” fa breccia nei cuori dei ragazzi, laddove il boogie-woogie, il sax e il pianoforte (poi rimpiazzati dalle chitarre elettriche) conquistano fette sempre più nutrite del mercato discografico americano: il 1949 è l’anno di Fats Domino, che con la sua The Fat Man incide il primo disco rock della storia. Due anni dopo arriva Jackie Brenston, “pompato” dalla sua casa discografica per cavalcare l’onda del successo del fenomeno, e della sua automobile Oldsmobile, la “Rocket 88”. Si è ancora lontani, però, da quella Rock Around the Clock destinata a far muovere i fianchi di milioni di adolescenti e a segnare uno spartiacque nel mondo della musica: nonostante saranno altri i cantanti che diventeranno idoli delle masse, un ringraziamento speciale va proprio a Bill Haley, colpevole solo di non aver avuto le physique du rôle della rockstar.
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Con il rock ‘n’ roll i testi delle canzoni, al fine di perseguire la tanto agognata fruibilità, raccontano la vita quotidiana, fatta di amori più o meno corrisposti, di sesso, di automobili veloci, di tutto ciò che vale la pena essere vissuto ma che fino a quel momento era stato edulcorato, se non censurato. La ribellione diventa la cifra stilistica delle espressioni artistiche, dalla musica al cinema: il 1953 è l’anno de Il selvaggio e nel 1955 le sale cinematografiche americane vengono prese d’assalto da giovani incantati dal personaggio di Jim Stark, il teppistello di Gioventù Bruciata che altro non è che un ragazzo incompreso dai grandi.
Ecco che il tema dell’incomunicabilità genitori-figli scuote l’intero universo giovanile, offrendo scorciatoie spesso fallaci ad adolescenti che ricercano solo una propria dimensione. Nel 1956, in Heartbreak Hotel, Elvis Presley racconta la vicenda, realmente accaduta, di un ragazzo suicida che prima di morire lascia un biglietto: «I walk a lonely street». I drammi dei ragazzi abbandonano la fredda e sterile cronaca per diventare parte del repertorio di rockstar capaci di trasmettere messaggi sociali. Nel 1958, Chuck Berry canta la storia di Johnny B. Goode, un reietto che non sa né leggere né scrivere ma che suona la chitarra in modo divino.
È questa capacità di parlare ai teenager ad aver decretato il trionfo e la popolarità del rock ‘n’ roll. Una capacità al limite tra spontaneità e strategia commerciale: nella nuova società del benessere, i giovani assurgono a categoria sociale ed economica definita, diventando soggetti attivi del mercato, con propri gusti, mode e aspettative che il marketing tenta di soddisfare. Nascono i concetti di “cultura giovanile” e “gioventù”, e se è vero che il rock ‘n’ roll si pone come massimo interprete del nuovo corso storico, altrettanto vero è che quando Elvis Presley appare in tv, di fronte a lui c’è un gruppo sociale pronto a capire la novità della proposta e a consumarla. Parlare di semplice strategia commerciale, volta a inquadrare i giovani disorientati in uno schema di mercato presentato come anticonformista, è poco realistico, non meno però di considerare il rock ‘n’ roll il mero frutto spontaneo dei tempi. Mai come in questo caso, dunque, in medio stat virtus.