Perché la sinistra francese si è divisa (perdendo)?

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Alla fine sarà Emmanuel Macron contro Marine Le Pen. Come nel 2017, le forze della sinistra rimangono fuori dal ballottaggio per le presidenziali. Il 24 aprile gli elettori saranno chiamati a scegliere tra un leader di centro e una candidata della destra radicale. I voti della sinistra sconfitta andranno, secondo i sondaggi, in maggioranza a Macron, nell’ottica di un “fronte repubblicano” contro l’estremismo come già successo alle ultime presidenziali e, prima di allora, nella tornata del 2002, quando il candidato del centrodestra repubblicano Jacques Chiraq raccolse più dell’ottanta per cento dei voti al secondo turno, succlassando Le Pen padre.

E tuttavia la tenuta di questa dinamica di voto antifascista è sempre più a rischio: già diversi mesi fa Libération, storico quotidiano della sinistra francese, aveva pubblicato un discusso reportage in cui riportava le voci dei tanti elettori progressisti che si dicevono pronti ad astenersi se al ballottaggio si fosse riproposto il duello Macron-Le Pen. E «né Macron né Le Pen» è lo slogan delle occupazioni che in questi giorni stanno attraversando le università francesi – su tutti la celebre Sorbona di Parigi – dimostrando l’indisponibilità di almeno parte dell’elettorato gauchiste al voto utile contro la destra.

Sull’assenza della sinistra si è concentrata parte dei commentatori. Benché non inattesa – tutti i sondaggi davano per certa la classifica poi effettivamente risultata dal voto – la sconfitta del primo candidato progressista e terzo in assoluto, Jean-Luc Mélenchon, ha lasciato l’amaro in bocca ai suoi supporter. Dopo una campagna elettorale di grande successo, che lo ha portato dal sei per cento delle prime rilevazioni a quasi il ventidue, il tribuno della sinistra radicale ha mancato di poco più di un punto percentuale il sorpasso su Marine Le Pen e l’accesso al secondo turno.

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Le altre forze di sinistra – verdi, comunisti, socialisti – hanno collezionato assieme circa l’otto per cento. Poco, ma più che sufficiente per permettere a Mélenchon di accedere al ballottaggio se indirizzati a suo tempo verso di lui. L’idea di una convergenza delle forze di sinistra a questa tornata non è mera speculazione: per mesi il dibattito sul tema ha tenuto banco nei giornali progressisti, e a gennaio un gruppo di giovani senza appartenenze di partito aveva indetto le Primarie Popolari, una consultazione online che aveva lo scopo di riunire tutte le anime della gauche in una candidatura unitaria. Il voto ha premiato Christine Tabuira, indipendente ex radicale, ma nessuno degli altri candidati ha accettato l’esito, e la stessa Tabuira è stata costretta a ritirarsi dando il suo endorsement a Mélenchon. Questo nonostante negli stessi mesi un sondaggio mostrasse come la stragrande maggioranza degli elettori che si inscrivono all’area della sinistra, l’85 per cento, vedesse con favore l’ipotesi di una candidatura unitaria.

Un’unione impossibile

Insomma, il tema della divisione della sinistra è centrale nell’analisi di questa elezione presidenziale. E a urne chiuse possiamo provare ad abbozzare alcune delle ragioni di questa unione impossibile.

Innanzitutto, i programmi. Nonostante la comune appartenenza all’area della sinistra, i quattro principali candidati – Yannic Jadot per i verdi, Anne Hidalgo per i socialisti, Fabien Roussel per i comunisti e appunto Jean Luc Mélenchon per la sinistra radicale – hanno tratteggiato visioni profondamente diverse su alcuni temi chiave. L’Europa in primis: benché nessuno dei candidati di sinistra sia tecnicamente uscitista, cioè favorevole all’abbandono dell’Unione da parte della Francia, il rapporto con Bruxelles è fortemente divisivo. Roussel e, soprattutto, Mélenchon sono storicamente critici verso le politiche europee. Opposto l’approccio di socialisti e verdi, che dell’europeismo hanno fatto un tratto identitario – tanto da chiamare la lista Europe Ecologiste – Les Verts nel caso di Jadot. I programmi di Mélenchon e Roussel convergono anche sulle tematiche del lavoro e della giustizia sociale – campi in cui, nuovamente, gli altri due si attestano su posizioni più moderate – ma divergono profondamente sulle politiche ambientali. Nel contrasto alla crisi eco-climatica sono Jadot e Mélenchon ad avvicinarsi molto, mentre Hidalgo si mantiene prudente su alcune questioni chiave (allevamenti intensivi, trasporto) e addirittura Roussel si schiera su posizioni conservatrici, lanciando bordate contro gli «ecologisti radical-chic» e in difesa di auto e carne. Le geometrie variabili delle posizioni, insomma, hanno reso difficile trovare un candidato su cui innestare una quadra dei diversi programmi, e contribuito a far fallire operazioni come quelle di Christine Tabuira.

Le performance ambientali dei candidati secondo FranceInfo.

Secondo punto chiave per comprendere la frammentazione della sinistra francese è il peculiare andamento della campagna elettorale del principale esponente d’area: Jean-Luc Mélenchon. Il 10 aprile il leader della France Insomnouse ha accumulato una distanza incolmabile con tutti gli altri candidati, imponendosi come il vero candidato della sinistra e l’unico con qualche possibilità concreta di accedere al ballottaggio. Ma solo pochi mesi fa lo scenario era totalmente diverso: ancora a gennaio Mélenchon era dato dai sondaggi sotto il dieci per cento, mentre Anne Hidalgo, al momento della sua discesa in campo, poteva contare su un pacchetto di voti che oscillava tra il sette e il nove per cento. L’enorme capacità di recupero della sinistra radicale in campagna elettorale – frutto anche delle universalmente riconosciute abilità oratorie del leader, già sperimentate nella campagna del 2017 – ha lasciato sperare a lungo verdi e socialisti di poter emergere. E d’altronde ogni forza della sinistra aveva delle ragioni per sperare in un momentum positivo. I verdi, forza storicamente secondaria nello scenario politico francese, si presentavano a queste presidenziali reduci da uno storico exploit alle europee del 2019 e dalla conquista di molti grandi centri – da Lione a Bordeaux – alle ultime amministrative. I socialisti schieravano Anne Hidalgo, popolarissima sindaca di Parigi appena riconfermata che sperava di trasferire l’energia della sua campagna comunale sul piano nazionale. I comunisti dal canto loro, dopo aver appoggiato Mélenchon nel 2017, sentivano il bisogno di riapparire sulle schede col loro simbolo, e hanno creduto in una narrazione “patriottica” e rivolta soprattutto alle periferie e alle campagne bianche che, in un primo momento, sembrava essere premiata dai sondaggi.

Ultimo ma non da ultimo, il fattore personale. «Mélenchon ha un pessimo rapporto personale con quasi tutti i dirigenti degli altri partiti di sinistra; oltre alle divergenze programmatiche, anche questo è un punto importante per capire come mai per ora nessun accordo sia stato possibile» scriveva a febbraio Francesco Maselli, corrispondente italiano del quotidiano francese L’Opinion. La sinistra francese, come quella italiana, ha una lunga storia di scissioni e addii dolorosi, che rende le classi dirigenti dei partiti più distanti tra loro di quanto spesso non lo siano i loro elettori.

Unità: la strada giusta?

È dunque l’assenza di unità la chiave della sconfitta della sinistra francese alle presidenziali di quest’anno?

È ragionevole pensare che una convergenza di scopo sul candidato più quotato, Mélenchon, anche solo di uno tra gli altri tre sfidanti progressisti, avrebbe permesso al leader della France Insomnouse di accedere al ballottaggio. Una consapevolezza che di certo ha il suono della beffa per i suoi militanti. Ma questo non significa necessariamente che l’individuazione a priori di un candidato unitario avrebbe garantito la somma delle percentuali raggiunte separatamente dai partiti. L’elettorato di Mélenchon, raccontano i dati, è il più trasversale, con un’importante percentuale di voto radicale e scontento disposto anche a votare per Le Pen al secondo turno. Un elettorato che non automaticamente avrebbe scelto candidati della sinistra moderata al primo turno, nemmeno se appoggiati dallo stesso Mélenchon.

Non solo: la presenza di un polo unico e forte della sinistra avrebbe potuto scompigiare le carte anche a destra. Anche la droit, infatti, si è presentata divisa tra quattro diversi candidati: oltre a Marine Le Pen, il polemistra d’estrema destra Eric Zemmour, la repubblicana Valerie Pécresse e il sovranista Dupont-Aignan. La somma dei voti ottenuti dai soli tre nomi più radicali – Le Pen, Zemmour, Dupont-Aignan – supera di gran lunga la percentuale di tutta la sinistra unita.

La frammentazione, insomma, ha sicuramente penalizzato la sinistra francese. Ma il campo della gauche è attraversato da tensioni e differenze profonde e antiche, difficili da conciliare. Il tutto in un Paese, la Francia, che il voto testimonia starsi spostando nel suo insieme a destra.

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