Cosa rende complicate le trattative su chi mandare al Quirinale

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I nomi non si fanno, non tutti, ma da oltre un mese è cominciato il torneo del Quirinale. Da Palazzo Chigi collocano l’inizio delle votazioni per il nuovo Presidente della Repubblica attorno al 24 gennaio. Stavolta non ci sono candidati più favoriti di altri (le candidate non ci sono proprio, ma non stupisce). L’unica eccezione è Mario Draghi: se davvero volesse andare al Colle, nessuno, nonostante le dichiarazioni ufficiali, riuscirebbe a dirgli di no.

Le forze politiche si dicono aperte a collaborare. Partito Democratico e Movimento Cinque Stelle sembrano entusiasti dell’idea di fare una proposta comune, benché di proposte non ne abbiano, sicuri solo di cosa rifiutareSilvio Berlusconi, il nome del centrodestra. C’è l’ostacolo dei numeri, certo: nemmeno con i voti renziani, che si sono detti «decisivi» e pronti a dialogare con la Lega, la soglia potrebbe dirsi raggiunta; peraltro, qualcuno si ricorda che il capo dello Stato è anche il Presidente del Consiglio superiore della magistratura? Nella consapevolezza che la sfida non è semplice, il centrodestra non ha la presunzione di convincere tutti e, se l’ipotesi Draghi diventasse attuale, difficile che la sua maggioranza si tiri indietro. E allora che cosa rende così lunghe e complicate le trattative per l’elezione del successore di Sergio Mattarella?

Se Draghi va al Quirinale: il futuro di Palazzo Chigi

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Il presidente del Consiglio Mario Draghi. Foto: Flickr.

A prestare attenzione solo al pragmatismo dell’Economist, il settimanale inglese che ha definito l’Italia “il Paese dell’anno 2021”, la nostra più alta carica dello Stato deterrebbe la triplice funzione formale di «fare discorsi, conferire onorificenze e ricevere dignitari». Avrebbe da ridire l’attuale Presidente in carica, che di essere rieletto non ne vuole sentir parlare: «l’attività è impegnativa e io sono vecchio». A onor del vero il Quirinale detiene poteri dall’elevato peso politico, come sciogliere le Camere e nominare il Presidente del Consiglio dei ministri, ma ha ragione l’Economist a suggerire che ciò che mette l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica al centro del dibattito è che non si tratta solo di trattative per la presidenza della Repubblica.

Se Draghi andrà al Palazzo del Quirinale bisognerà formare un nuovo governo. Il che potrebbe portare a elezioni anticipate. Sarebbe un momento favorevole per il centrodestra dal punto di vista dei sondaggi, ma anche al suo interno c’è timore per una crisi di governo. Secondo il ministro Renato Brunetta, ciò che serve all’Italia oggi è «stabilità, credibilità e affidabilità». Continuità, quindi. Arrivare alla fine della legislatura, nel 2023. Mantenere la tregua tra i partiti dell’ampia coalizione che sostiene l’esecutivo, dove solo Fratelli d’Italia è all’opposizione, e non rischiare che una crisi di governo ci distragga dall’approvazione della Legge di Bilancio, sul breve termine, e dalla lotta al Covid-19, sul lungo termine. Anche secondo la stampa britannica la prospettiva che Draghi si faccia da parte come capo del Governo per assumere la Presidenza minaccia di far precipitare il Paese nell’instabilità politica.

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E questa era anche la posizione del Financial Times prima di subire un’inversione. Secondo Bill Emmott, il risultato perfetto – che Draghi resti premier fino al termine della legislatura – è irraggiungibile. La migliore delle soluzioni possibili resta dunque quella che Draghi sia eletto presidente della Repubblica a gennaio, e da lì per i prossimi sette anni utilizzi i poteri del ruolo nel modo più efficace, affinché le riforme possano durare attraverso i successivi governi. Il futuro dell’esecutivo attuale, avverte il giornalista del quotidiano finanziario britannico, sarebbe comunque minato, a lungo andare, dalla inevitabile violazione del cessate il fuoco tra i partiti: «quel cessate il fuoco potrebbe durare per altri sei mesi al massimo prima che prenda il sopravvento la febbre elettorale: sei mesi con le mani su un volante sempre più tremolante rispetto a sette anni da autorevole vigile urbano».

Chi avrà un peso nella scelta

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La prima scelta del centrodestra, Silvio Berlusconi. Foto: Wikimedia Commons.

Intanto Enrico Letta e Giuseppe Conte fanno asse. Punto d’incontro: il ruolo del Presidente della Repubblica richiede una figura di spiccata sensibilità istituzionale, super partes, in grado di dare voce a tutti i cittadini; Berlusconi è un capo politico, rappresenterebbe solo la sua parte. Nessun cenno al fatto che in ogni democrazia che abbia rispetto di sé stessa sarebbe impensabile porre al vertice un uomo che, tra le altre cose, è stato sotto inchiesta per riciclaggio di denaro sporco, legami con la mafia, evasione fiscale e corruzione di politici, giudici e finanzieri. Anzi, Letta apre alla stessa Giorgia Meloni, «in una logica di maggior dialogo possibile: l’elezione del presidente della Repubblica è il momento più alto in cui l’unità del Paese e l’unità delle istituzioni devono definirsi e serve dialogo, correttezza e riconoscimento reciproco». Concorda la leader di Fratelli d’Italia, ribadendo la condizione sine qua non che il nuovo presidente sia un patriota, e che non accetterà compromessi.

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Che l’andazzo di questa competizione stia trasformando in protagonisti assoluti politici che avranno in realtà ruoli marginali – Letta (17 per cento) e Meloni (4 per cento) – è una distorsione che sarebbe bene iniziare a studiare con attenzione. Nel Parlamento reale, il centrodestra ha i numeri per essere determinante per l’elezione del presidente, ma il peso politico dei Cinque Stelle resta alto. A Grillo non dispiacerebbe che Draghi salisse al Colle, anzi lo vedrebbe proprio bene «lassù»; Conte non lo esclude, ma come l’alleato Letta preferisce riparlarne a Manovra chiusa. Ma non esclude nemmeno un voto sul web con gli iscritti del Movimento per la scelta del candidato da portare al Quirinale. Data l’idea di proporre un nome insieme al Pd, ci si chiede cosa ne pensino i democratici di tale procedura online o, alla deriva, se parteciperebbero, secondo le solite oscure modalità che delegano all’elettore decisioni che dovrebbe prendere la politica.

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Nessun Mattarella bis

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Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Foto: Wikimedia Commons.

Tra candidature esplicite e nomi taciuti per non bruciare i candidati, l’unica cosa chiara è l’irritazione di Sergio Mattarella nel sentir parlare di una sua rielezione. I partiti dovranno trovare un altro nome su cui convergere a gennaio perché il bis – come avvenuto per Giorgio Napolitano – questa volta non sembra una proposta fattibile. Nonostante l’attuale Presidente della Repubblica sia sempre riuscito a ricomporre i pezzi di una classe politica propensa, quasi per natura, all’instabilità, restare al Quirinale non farebbe che mettere in luce l’inettitudine dei partiti ad assumersi la responsabilità di una decisione, e la riduzione di sé stessi ad attori incapaci di gestirsi, cani sciolti che di sé non sanno che fare.

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Fabiana D'Eramo

Laureata alla Sapienza in Comunicazione, tecnologie e culture digitali, poi in Media, comunicazione digitale e giornalismo. Scriverei di qualunque cosa, ma quello per la politica è uno strano interesse che non mi so spiegare, ma c'è ed è ingombrante.