Hebron, la vita tra le bombe: «Noi palestinesi come in prigione»

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Per la Bibbia Abramo vi seppellì Sara. E lì fu seppellito dai figli Isacco e Giacobbe. Gli arabi la chiamano al-Kalīl, cioè “amico”. Abramo, amico di Allah. Gli ebrei vi incoronarono Davide, re d’Israele, di cui divenne prima capitale. Erode nel I secolo vi eresse un’enorme costruzione, trasformata mezzo millennio dopo dal bizantino Giustiniano II in una chiesa. Con i crociati, che vi impiantarono una sede vescovile, tornò a essere “la città di Abramo” . Nei secoli successivi passò in mano all’Impero ottomano, al Pascià d’Egitto e, nel 1917, alle truppe inglesi. La città di Hebron, distesa sui monti della Giudea a ventinove chilometri da Gerusalemme, è la culla millenaria di tutte e tre le grandi religioni monoteiste, antichissimo centro di attrazione di popoli e culture.

Veduta collinare di Hebron (Palestina). Foto: Flickr.com

Oggi eccelle nella produzione della ceramica e del vetro, con la città vecchia – un cordone di vicoli, crocicchi, mercati – a sorvegliare la grotta di Makhpēlāh, dove riposano i Patriarchi, diventata dal Patrimonio Unesco dal 2017. Eppure è una città senza pace. Devastata da decenni di lotte intestine tra israeliani e palestinesi, rinfocolate sulle ceneri della Guerra dei Sei Giorni, con la politica di insediamenti di Isreale sul territorio palestinese. Oggi, in città, se ne contano più di venti, per circa settemila anime.

20 agosto 1993, Yitzhak Rabin e Yasser Arafat firmano gli Accordi di Oslo sotto la benedizione di Bill Clinton, allora
presidente degli Stati Uniti. Foto: Wikimedia Commons.

Un unico corpo smembrato. Una città spaccata in due parti che non comunicano. H1 e H2, come da accordi di Oslo (1993). Di quel bacillo di pace, oggi, non rimangono che le buone (?) intenzioni. Una fetta agli arabi, l’altra agli isrealiani. Due mondi che non dialogano (più). Ma si barricano. Si arroccano. Si boicottano e si accoltellano a vicenda, pur calpestando e (con)dividendo ogni giorno le stesse piazze, le stesse strade. Gli stessi luoghi di culto. Il 25 febbraio del 1994, non a caso, il teatro dell’ultima mattanza fu proprio la moschea di Abramo. Sessanta morti in un giorno solo.

Oggi the Wise Magazine ha incontrato Nisreen Azzeh, pittrice palestinese di Herbon, che quella carneficina se la ricorda bene:

«Quel giorno ero a Tel Rumeida [quartiere a ovest di Hebron, N.d.R.] e ne avevo solo sentito vagamente accennare da qualcuno. Ma quando mi sono ritrovata davanti alla tv ho visto tutto il sangue dei fedeli sparso ovunque nella moschea».

Ritratto di Nisreen Azzeh, per gentile concessione dell’intervistata.

Nisreen è un’artista, attivista e madre di quattro figli e moglie di un medico morto nel 2015 battendosi per la causa palestinese: «Mio marito, Hashem Azzeh, era un militante contro la politica israeliana dei muri e degli insediamenti. Ed è stato ammazzato a casa sua con il gas lacrimogeno che si usa negli scontri militari perché lavorava per l’UNHCR e stava ricevendo la solidarietà di alcuni attivisti umanitari mentre stava raccontando loro delle violenze a Hebron e delle conseguenze della divisione della città. Parecchie delegazioni internazionali intrettanevano rapporti con lui, a tal punto da far perdere il sonno ed essere motivo di pericolo per i coloni: su tutti l’estremista Baruch Marzel e i suoi uomini. Si spendeva per far boicottare tutti i beni e i prodotti dei coloni. Ma non è un terrorista».

Oggi, infatti, i coloni dell’ultradestra ebraica, seppur in minoranza, hanno allungato i tentacoli su tutta la città. Hanno fatto chiudere centinaia di negozi arabi, sbarrato e interdetto intere strade, piazzato ovunque check-points militari, forzato i palestinesi alla fuga con esecuzioni sommarie, sassaiole sui civili, perquisizioni all’alba, arresti arbitrari di minori. Molti sono fuggiti. Ma non Nisreen, non la sua famiglia. Neanche dopo la morte del marito. Lei è rimasta con i figli nella casa sulla collina di Tel Rumeida, zona H2, nelle mani dell’esercito israeliano, dove sono rinchiusi circa trentacinquemila palestinesi. Ma è determinata a resistere.

«Noi vogliamo difendere la nostra terra e rivendicare i nostri diritti nel nostro Paese. Gli insediamenti sono illegali. Sono stati costruiti sui territori della Palestina. Sono venuti a vivere qui dall’America, dalla Francia, dal Canada e da altri Paesi. Questo significa che siamo noi gli abitanti originari di questa terra. Hanno costruito gli insediamenti rilevando una terra dove c’era una scuola per ragazzi, Tariq Ibn Ziyad School, nella città vecchia. L’esproprio delle terre dei palestinesi, qui come in altre zone della città, ci ha messo in grande pericolo. Per esempio qui i talmudisti hanno distrutto tutto quello che hanno trovato sulla loro strada, hanno preso possesso del mercato e terrorizzano i fedeli perché girano armati».

Hebron
Un anziano palestinese a passeggio tra i negozi sbarrati nel mercato vecchio della città. Fonte Wikimedia Commons.

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Cosa significa vivere rinchiusi nella propria città?

«Io e la mia famiglia abbiamo sofferto enormemente l’inasprimento delle misure di repressione, perché siamo stati totalmente reclusi qui dopo la Seconda Rivolta palestinese nel 2000 e la Rivolta dei coltelli. I coloni e l’esercito qui uccidono o accoltellano intenzionalmente i palestinesi. A sangue freddo. In queste settimane le violenze sono riesplose e i check-point militari sono stati chiusi. Ora con i miei figli vivo proprio vicino all’insediamento di Hebron popolato dal più radicale degli estremisti, Baruch Marzel, un ebreo ortodosso di estrema destra che viene da Boston.

I coloni compiono ogni giorno atti di arroganza e corruzione: uccidendo volutamente persone solo perché palestinesi, chiudendo le nostre vie di transito principali e imponendoci il coprifuoco per un intero mese, o arrestando i nostri bambini. O le ispezioni nel cuore della notte, che mi spaventano assai e più di me i miei figli».

Quindi non vi potete muovere liberamente della vostra città.

«No, la via d’accesso alla strada principale che porta alla nostra casa è chiusa per noi. Così abbiamo cominciato a imboccare strade dissestate e pericolose per tornare a casa ogni giorno e l’intera area ci è stata preclusa dal 2016 al 2018. Abbiamo perso ogni sicurezza, abbiamo paura per i nostri figli, specie quando devono attraversare i check-point militari per andare a scuola o all’università o a lavoro e non li vediamo ritornare.

Viviamo come in una prigione, privati della libertà, perfino dei terreni di nostra proprietà. Per esempio non possiamo neanche raccogliere le olive dei nostri alberi nella terra a fianco alla nostra casa».

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Il massacro nella Moschea è una ferita ancora aperta.

«Sì, nel massacro ventotto palestinesi in preghiera furono uccisi dal medico zionista Baruch Goldestein. Ma gli isrealiani sostenevano che ci fosse già una sommossa in atto. Questa è la loro giustificazione per quella strage a sangue freddo e premeditata. Ma la domanda giusta è: è possibile permettere a un dottore di curare persone, se lui stesso è completamente folle?

Non solo, ma dopo la moschea fu chiusa e divisa in due parti, e Hebron stessa, dopo l’Accordo di Oslo fu spartita. Anche Shuhada Street fu chiusa, insieme a tantissimi negozi e moltissimi palestinesi persero il lavoro. Perché queste ingiustizie nella nostra zona?».

La tomba dei Patriarchi o grotta di Makhpēlāh di Hebron, teatro della mattanza, nelle cui viscere, secondo la tradizione biblica, sarebbero custoditi i sepolcri dei Patriarchi. Foto: Wikimedia Commons.

Oggi, quasi vent’anni dopo le tensioni e le divisioni, nella moschea rimangono pesanti limitazioni per i fedeli di entrambe le religioni.

«Sì, subiamo parecchie restrizioni che impediscono la nostra libertà di culto: per esempio, il gran numero di militari ai check-points e di investigatori che cercano di ostacolare le funzioni. Così come l’arroganza dei coloni causa molti problemi ai passanti al mercato e nelle strade che portano alla Moschea di Abramo. L’occupazione israeliana del tempio ha, per esempio, portato al divieto di diffondere le funzioni tramite altoparlanti perché disturba i coloni durante le loro celebrazioni talmudiche».

Testimonianze palestinesi del massacro nella tomba di Abramo.

Più volte nei mesi scorsi Ebrei e Palestinesi hanno manifestato per la pace e contro le pollitiche di insediamento di Israele. CI SONO FORME DI collaborazione tra ebrei e palestinesi a Hebron?

«Sì, c’è cooperazione tra culture, dato che gli attivisti sono molto solidali con la nostra causa. Soprattutto da quando hanno visto con i loro occhi che non siamo terroristi, ma semplicemente difensori della terra nostra che ci viene rubata ogni giorno sotto i nostri occhi, come accade in Sheikh Jarrah in Gerusalemme. Così ci aiutano nel raccogliere e recuperare le olive che ci vengono sottratte con le armi dai coloni».

Cosa significa per dei ragazzi crescere in un contesto del genere?

«Ho due figlie: la più grande si sta laureando in graphic design, la più piccola, di undici anni, ogni giorno va in una scuola che è sotto il controllo dell’esercito. E altri due figli, l’anno scorso arrestati dall’esercito isrealiano. Tutti loro ogni giorno attraversano le barriere dei check-points e a volte devono aspettare per ore l’apertura dei cancelli elettronici per poter andare a scuola. Al mattino e quando tornano a casa, spesso gli israeliani tirano loro sassi e uova.

Un giovane palestinese attraversa un check-point militare. Fonte: Wikimedia Commons.

Vivono in uno stato di paura ed estenuazione. Escono di casa solo per andare a scuola, hanno pochi amici e possano giocare solo con i dispositivi elettronici. L’esercito israeliano ha preso di mira più volte il mio figlio più grande e l’ha arrestato perché aveva preso le difese di suo cugino aggredito da un colone: è stato rilasciato solo dopo tre ore. Una cosa simile successe quando fu aggredito in strada da un colone che gli chiese di suo padre, sapendo che era un attivista palestinese. I miei figli convivono da anni con i gas lacrimogeni. Uno di loro, Hanan, undici anni, mi racconta che li sogna spesso la notte.

Il clima di terrore e paura che hanno instaurato con l’uso delle armi e della forza mi costringe a rivolgermi a Medici senza Frontiere per chiedere assistenza per i miei bambini. I miei figli vivono la loro adolescenza nel terrore. E temo la crudeltà dei coloni. Questo accade qui. Ogni giorno. Ci lanciano pietre ogni giorno dagli insediamenti. Abbattono i nostri alberi da frutto, avvelenando gli alberi e l’acqua per spingerci ad andare via. Sparando ai muri di casa».

Da qui la tua scelta di cominciare a dipingere.

«Sì, perché volevo usare l’arte per costruire il tipo di umanità che ho immaginato. Io dipingo check-points, scene di occupazione, di prigionia e ma anche scene che celebrano il patrimonio artistico della Palestina e la sua natura. Ho iniziato nel 2003, dopo che, a causa della Seconda Intifada, fummo rinchiusi in H2 e agli uomini fu impedito di andare a lavorare. Così ho cominciato a mettere da parte denaro per la famiglia dipingendo».

Che conseguenze ha avuto lo scoppio della pandemia da Covid-19 sul tuo lavoro e sulle vostre vite?

«Adesso siamo in difficoltà: io non lavoro. La pandemia ha interrotto il cordone di solidarietà che si era creato con i visitatori e i clienti. E ha avuto un impatto enorme nel rallentare le nostre attività, dato che il nostro Paese dipende fortemente dal turismo di massa da tutto il mondo. L’economia palestinese è distrutta e ho perso il mio lavoro, perché contavo sulla possibilità di aiutare la mia famiglia grazie alla pittura.

Così, ultimamente ho iniziato a lavorare in un’associazione per la cura di persone sordomute che mi garantisce una somma di mille shekel [valuta ufficiale di Isreale, N.d.R.]. Ma certamente questi soldi non sono abbastanza per comprare libri scolastici, cibo e vestiti per i miei ragazzi. Così mi sono rivolta ad alcuni amici francesi che mi hanno donato dei soldi».

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la popolazione ha avuto e sta avendo l’assistenza medica necessaria per contenere il virus?

«No, solo la vaccinazione contro il Covid-19 è disponibile in città per tutti, ed è gratis. Ma la popolazione non ha assolutamente i dispositivi per fronteggiare la pandemia. Solo gli ospedali privati forniscono mascherine e altri dispositivi necessari. In molti casi, infatti, tante persone muoiono per assenza di respiratori e ventilatori polmonari, o anche per mancanza di posti letto negli ospedali pubblici. Per di più se hai bisogno di operarti, come mi è capitato un anno fa, devi pagare l’ospedale quattromila shekel per avere certezza del buon esito dell’operazione. Per fortuna mi hanno aiutato a raggiungere la cifra alcune persone di Hebron».

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