Perché l’Afghanistan è caduto in mano ai talebani
Con l’ascesa talebana, in Afghanistan cade l’ultimo tassello di un domino durato oltre quarant’anni. Un doloroso susseguirsi di eventi nato dalla Rivoluzione d’aprile del 1978, proseguito con l’invasione sovietica prima, con quella americana poi, e costellato nel mezzo da un’infinita guerra civile mai davvero risolta.
Oggi, nell’apprensione del mondo intero, Kabul è talebana. I guerriglieri jihadisti siedono nei palazzi del potere, mitra ancora alla mano, e incrociando le gambe sulle eleganti scrivanie proclamano il ritorno dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan.
La “dottrina Biden”
Che il governo di Kabul non avrebbe retto a lungo non era un segreto per nessuno; che l’inevitabile ritiro delle truppe Usa avrebbe segnato l’inizio della fine, nemmeno. La lunga evacuazione del Paese è stata un obiettivo condiviso da tutti e tre gli ultimi presidenti USA. Agli occhi degli yankee, la guerra in Afghanistan ha ormai fatto il suo corso. Durata vent’anni e costata oltre duemila miliardi di dollari, è ormai priva da un pezzo della spinta vendicativa contro quel diabolico nemico che attentò al way of life d’oltreoceano, Osama Bin Laden.
Nel 2010, l’occupazione americana in Afghanistan raggiunse il numero massimo di militari stanziati nel Paese: circa centomila. Nel 2016, alla fine dei mandati Obama, lo stesso numero ammontava a poco più di ottomila unità. All’inizio del 2021, in Afghanistan presenziavano circa quattromila soldati a stelle e strisce.
Un ritiro nell’aria da anni e anzi molto più lento del previsto, e fortemente spinto da opinione pubblica e politica statunitense; e che, nei piani di Joe Biden, si sarebbe dovuto concludere simbolicamente l’11 settembre 2021, vent’anni esatti dopo l’attentato alle Torri Gemelle.
E sia chiaro: con ben poca cura di cosa sarebbe successo dopo in Afghanistan. D’altronde, Biden aveva già lasciato intendere la sua “dottrina” durante il discorso inaugurale da neopresidente: «This is the time to heal in America». Vale a dire: con una pandemia dirompente, un’economia traballante e una forte instabilità interna, non aspettatevi che gli Stati Uniti si concentreranno sul loro ruolo di “poliziotto mondiale” nei prossimi tempi. Una decisione sensatissima in termini di politica nazionale, quanto ingenua sul piano internazionale.
Leggi anche: Presidenza Biden: la Cina e la Russia.
Vent’anni in Afghanistan e come vanificarli
Biden e il suo entourage si aspettavano che Kabul sarebbe caduta dopo novanta giorni dal ritiro delle truppe, a fine anno. Un presupposto basato in parte sull’accordo di Doha del 2020. Lì, con la garanzia del neutrale Qatar e il supporto di mezzo mondo, gli USA avevano concordato con i talebani un cessate il fuoco per tutto il 2021 (e il rilascio di migliaia di prigionieri in mano ai guerriglieri) in cambio della completa evacuazione Nato dall’Afghanistan.
Ma i conti sono stati fatti senza l’oste. I talebani non hanno mai realmente rispettato l’accordo, e gli attacchi verso le forze governative si sono in realtà intensificati nel corso dell’ultimo anno; e altre clausole di Doha, che includevano per esempio l’avvio di negoziati di pace con Kabul, non hanno mai portato a conseguenze concrete. Il piano di ritiro è stato comunque eseguito come previsto, con Biden e i suoi advisor a rassicurare che il governo di Kabul avrebbe resistito all’offensiva. Diversi colleghi Nato, tra i quali l’Italia e il Regno Unito, si sono trovati in forte disaccordo con questa decisione.
Secondo quanto riportato dal New York Times lo scorso 17 agosto, anche l’intelligence americana era di ben altro parere. Pare che alcuni recenti rapporti, datati luglio 2021, prevedessero la prossima e repentina caduta di Kabul. Una prospettiva ben diversa dai precedenti report di aprile, secondo i quali il governo afghano sarebbe durato altri diciotto mesi. Se la notizia del Times fosse confermata, le cose per Biden potrebbero complicarsi anche sul suolo americano: la volontà di proseguire con il piano di ritiro in presenza di simili informazioni potrebbe essere base per la creazione di una commissione d’inchiesta da parte dei repubblicani.
La debolezza dell’esercito…
Di certo viene da chiedersi: l’esercito afghano è stato sostenuto per anni dalla Nato. Come ha fatto a dissolversi in questa maniera di fronte ai talebani?
Ed è vero: la missione ISAF, che dal 2001 aveva accompagnato l’invasione dell’Afghanistan e la lotta diretta ai talebani, è stata rimpiazzata nel 2015 dalla Resolute Support Mission. Quest’ultima ha prioritizzato l’addestramento, la consulenza e le forniture necessari affinché le forze di sicurezza afghane potessero far fronte autonomamente alle minacce estremiste nel Paese.
Ma il primo errore va attribuito proprio alla Nato: Resolute Support ha cercato di creare quasi dal nulla un “nuovo” esercito, plasmandolo sulla base di quello statunitense. Le catene gerarchiche e logistiche, le visioni strategiche e tattiche erano pensate per un organismo militare occidentale, e non sono state assorbite come previsto da reclute e istituzioni afghane.
Anche la tecnologia non è stata più clemente. Per fare un esempio, l’aviazione afghana è tradizionalmente abituata a usare vecchi elicotteri sovietici come il Mil Mi-24; la Nato ha invece fornito gli UH-60 Black Hawk, coevi ma completamente diversi, di fatto “azzerando” l’addestramento di molti piloti. Inoltre, il supporto logistico e operativo era stato affidato a contractor occidentali che sono fuggiti dal Paese non appena le cose hanno iniziato a mettersi male.
Ma il maggior problema dello sventurato esercito afghano è stato sicuramente la corruzione, diffusissima tra i funzionari civili e militari del Paese. Innumerevoli scorte di cibo, armi, munizioni sono sparite nel nulla, paralizzando il buon funzionamento degli apparati di sicurezza. Molti funzionari mettevano a libro paga ghost soldiers, reclute inesistenti, per trarne ovviamente un beneficio personale mentre si faticava a pagare lo stipendio dei soldati in carne e ossa.
In un simile clima, non stupisce certo che l’esercito afghano sia giunto stremato alla prova finale contro i talebani: avamposti e stazioni di polizia, caserme si sono ritrovati a lungo privi di rifornimenti, pressoché disarmati – a Kandahar, si racconta, con solo buste di patatine da poter mangiare e passare in giro al posto delle razioni promesse. «Queste patatine fritte non ci aiuteranno a reggere il fronte!», si dice abbia gridato esasperato un agente della sicurezza.
L’esercito afghano, al momento della sua ingloriosa dissoluzione, era di certo uno degli eserciti più stanchi al mondo. Nonostante il supporto Nato, ha sopportato decenni di conflitto e negli ultimi vent’anni le sue perdite sono ammontate a sessantaseimila tra militari e poliziotti. E per giunta senza turnover: Al Jazeera stima che ogni mese l’esercito perdesse (tra caduti, disertori o per qualsiasi altro motivo) circa cinquemila unità, a fronte di un tasso di reclutamento mensile inferiore a cinquecento nuove reclute.
È quindi alquanto comprensibile che molte linee di difesa abbiano deciso di arrendersi alle condizioni proposte dai jihadisti: resa totale e consegna di armi ed equipaggiamento, in cambio del salvacondotto personale. L’alternativa sarebbe stata un sacrificio inutile ai fini del conflitto e in difesa di una burocrazia corrotta, del governo di quel Ghani che di lì a poco sarebbe fuggito su un elicottero pieno di contanti consegnando l’Afghanistan ai talebani.
… e la forza dei talebani
Quello afghano è finito quindi come un esercito allo sbando, col morale a terra e afflitto da infinite avversità, ma niente affatto un manipolo codardo o inesperto come alcuni media lo stanno descrivendo in questi giorni. Tutt’altro: sono notoriamente le milizie talebane a essere composte da rookie, reclute di fortuna che prima di oggi non avevano mai visto il conflitto coi loro occhi.
Eppure oggi questi sfavoriti dettano legge nel Paese mediorientale. La forza dei talebani non è stata nei numeri o nell’esperienza, ma nell’aver saputo sfruttare le debolezze del governo centrale, la poca resistenza della popolazione nelle aree rurali, l’estorsione para-criminale nelle zone occupate e perfino lo sfruttamento del settore minerario – ma, soprattutto, il traffico di oppio.
Com’è noto, l’Afghanistan è leader mondiale nell'”industria” dei papaveri da oppio, dai quali si ricavano sostanze illegali come l’eroina; un mercato largamente in mano ai talebani, e che ogni anno porta nelle loro tasche quasi mezzo miliardo di dollari. Su un totale di oltre un miliardo e mezzo l’anno da tutte le attività dei jihadisti: una quantità di denaro più che sufficiente per potersi armare e mettere in scacco un governo centrale non troppo efficiente.
Da tempo si crede che anche la Russia abbia sostenuto economicamente i talebani per allontanare la Nato da un’area critica e, soprattutto, rovesciare un governo filo-americano troppo vicino al proprio cortile di casa. L’anno scorso, in un rapporto che fu definito scioccante, l’intelligence americana scoprì che Mosca si era offerta di pagare ai talebani vere e proprie taglie per ogni soldato americano ucciso.
Quale futuro per l’Afghanistan?
Dopo le terribili immagini dell’ultima settimana, il mondo si interroga sul futuro che attende Kabul e dintorni: lo Stato laico e democratico è crollato, e i diritti delle donne sembrano sempre più una lontana utopia.
I talebani hanno cercato di rassicurare la comunità internazionale, ma nessuno crede loro davvero. «La transizione sarà pacifica» , «Le donne potranno studiare e lavorare», dicono – ma la realtà racconta di tumulti, di irruzioni e perquisizioni nelle case, di donne che già si vedono insultate e aggredite da chi non aspettava altro che un ritorno in pompa magna della shari’a. Agghiacciante il racconto di una ventiquattrenne afghana, pubblicato qualche giorno fa dal Guardian, costretta a occultare ogni prova di aver frequentato l’università e lavorato come insegnante per paura di ritorsioni, mentre per strada si trova a essere sempre più bersaglio di minacce: «Adesso la finirete di uscire per strada!», «Sposerò quattro di voi in un giorno!».
Leggi anche: L’assurda storia del finto lord inglese in gita a Kabul.
I talebani di oggi, rispetto a quelli del 2001, hanno imparato a comunicare col resto del mondo e a utilizzare i social: a far scuola è stato certamente l’Isis, la cui grande forza propagandistica si è basata su un uso attentissimo dei nuovi mezzi di informazione. Il rischio che ora i jihadisti riescano a imporre una visione completamente traviata della situazione afghana è altissimo.
Ma il sedicente Emirato non potrà sopravvivere senza alleati: se l’Occidente rifiuterà in maniera compatta la legittimità del governo talebano, per i Paesi islamici dell’area dipenderà invece dall’equilibrio dei rapporti regionali. Ma in particolare occorre capire come si comporteranno Russia e Cina.
Comprensibilmente nessuna delle due potenze si sta sbilanciando troppo, in questi giorni connotati da sdegno globale, ma si suppone che entrambi i Paesi decideranno infine di riconoscere l’Emirato Islamico dell’Afghanistan come legittimo successore del vecchio Stato. La Russia per i motivi già descritti, la Cina per ragioni economiche e di influenza, legate all’apertura del commercio con il nuovo regime, cinquanta miliardi di investimenti in sospeso, e all’espansione della Nuova via della seta – in particolare, l’Afghanistan potrebbe divenire un’estensione del Corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC).
Ma la Cina dovrà prima sbarazzarsi di un ostacolo perché ciò avvenga: gli uiguri, popolazione musulmana presente nella Cina nord-occidentale e da anni oggetto di un vero e proprio genocidio da parte del governo di Pechino. Il vicino Afghanistan si è spesso rivelato un rifugio sufficientemente sicuro per questa popolazione perseguitata: fatto, questo, possibilmente fautore di tensioni tra Pechino e Kabul. Sempre che i talebani non decidano, in virtù della ragion di Stato, che a rimetterci possano essere proprio i sacrificabili uiguri. Oltre al popolo afghano tutto.