Gabriele D’Annunzio e il bisogno del superfluo
Oggi D’Annunzio è più conosciuto come scrittore o come personaggio?
«Siamo davanti a un autore che ha costruito la sua personalità di scrittore sulla coincidenza tra finzione letteraria ed esistenza. Il suo intento è di trasfigurare la vita stessa in un’opera artistica, secondo il messaggio da lui formulato perentoriamente già nel primo romanzo, Il piacere: “Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte”. Questo intreccio di realtà e finzione rende il personaggio così suggestivo anche nell’orizzonte attuale, un tempo, secondo le parole di Milan Kundera, dominato da una onnipotente “imagologia”.
Ragionando altrimenti, opponendo per esempio il personaggio alla ribalta della scena politica o mondana al poeta puro delle Laudi, si rischia di scindere elementi che egli teneva invece saldamente legati insieme. Quando durante la Grande Guerra egli si rivelò a pieno titolo un eroe, non mancò mai di sottolineare che il suo era intrinsecamente l’eroismo di un poeta. Il personaggio eccentrico o trasgressivo e l’attenzione che attirava su di sé trovavano una motivazione forte nell’attività di scrittura e di studio. La biblioteca del Vittoriale conserva più di trentamila volumi. D’Annunzio era un poeta che studiava e leggeva, anche quando sembrava dedicarsi per intero agli amori o allo sport».
In che modo D’Annunzio è stato un grande interprete della modernità?
«Egli è stato il primo poeta ad andare in aeroplano. Aggiunse alle tante maschere di cui faceva sfoggio nella vita del tempo anche quella dell’aviatore. Difficilmente oggi riusciamo a capire il senso di stupore che procurava allora l’invenzione dell’aeroplano. Al raduno di Montichiari, vicino a Brescia, ove D’Annunzio volò per la prima volta su un aereo americano, la folla era immensa, e vi figuravano anche personaggi illustri, come Puccini e Kafka, che si trovavano in Italia e vollero presenziare a questo spettacolo.
Ma nella sua adesione alle forme più spettacolari della nuova civiltà tecnologica, D’Annunzio è diverso ad esempio dai futuristi, altri grandi interpreti della modernità. Marinetti, capofila del Futurismo, affermava che l’automobile era più bella della Nike di Samotracia. D’Annunzio avrebbe ragionato in altro modo. Avrebbe detto che l’automobile non è se non la realizzazione, resa possibile dalla tecnica moderna, dell’antico sogno di cui è espressione anche la Nike di Samotracia. Il suo era uno sguardo che, mentre volgeva al presente e al futuro, recuperava anche il passato del mito e dell’arte. Lo stesso vale per l’aeroplano. Il progresso tecnologico rendeva possibile l’avverarsi del sogno che era stato di Dedalo e di Icaro e poi di Leonardo da Vinci, ovvero la conquista dell’aria».
Nelle parole del Vate, l’Italia è forte e potente. Non ha forse peccato di superbia?
«Più che sostenere che l’Italia fosse forte e potente, D’Annunzio auspicava che lo diventasse. L’Italia fra Ottocento e Novecento conobbe una fortissima accelerazione economica ed entrò risolutamente nel panorama europeo: vi erano le premesse, insomma, per promuovere l’Italia a protagonista di quella che gli storici chiamano l’età degli imperi. Ma nella mente di D’Annunzio agiva sempre l’idea che il Risorgimento fosse stato tradito e che ci si accontentasse di una vita politica mediocre, fatta di corruzione e compromessi, di mera gestione del potere. C’era in lui l’auspicio fortissimo che l’Italia diventasse potente e più grande, con la consapevolezza, tuttavia, di un’inferiorità rispetto a Francia, Germania o Inghilterra.
Vero è che la tensione a una “più grande Italia” era alimentata anche dalle continue frustrazioni e delusioni cui essa pareva andare incontro nelle alterne vicende della storia. Anche la Prima Guerra Mondiale, pur vittoriosa, apparve infine a D’Annunzio come una “vittoria mutilata”. Ecco allora l’impresa di Fiume, con il sogno di ripristinare la potenza e la gloria veneziane sull’Adriatico. D’Annunzio fu il primo poeta a conquistare e a governare una città, anche se poi l’avventura di Fiume terminò in uno scacco».
Il rapporto tra il Vate e il fascismo non è molto chiaro. Può aiutarci a comprenderlo meglio?
«D’Annunzio non prese mai la tessera del Partito Fascista e dopo l’insediamento al potere di Mussolini non tornò mai a Roma, nonostante fosse la città che egli più amava fin dalla giovinezza. D’Annunzio per qualche tempo, prima della Marcia su Roma, venne anzi ritenuto una sorta di possibile alternativa a Mussolini. Si guardava a lui come all’uomo capace di riunificare il Paese, che si trovava in un contesto drammatico di guerra civile. Credo che egli stesso interpretasse in questo modo il suo compito.
Certo, D’Annunzio era un nazionalista, che però in guerra si era accorto del ruolo decisivo assunto dal popolo, che non poteva più essere considerato semplicemente un oggetto passivo dell’esercizio del potere. Il suo Capo di Gabinetto a Fiume, Alceste De Ambris, era un sindacalista anarchico, dunque un uomo di estrema sinistra. Quella di D’Annunzio era una posizione improntata a un tenace, temerario romanticismo politico, con tratti anche utopistici, ma egli si voleva al di sopra delle parti, fra cui tentava una sintesi, una conciliazione.
Tra Mussolini e D’Annunzio c’era in realtà una sorta di competizione. In una occasione D’Annunzio afferma: “Io sono il precursore certo di quello che ha di buono il Fascismo”. Questa frase non significa certo un’adesione incondizionata. In alcuni scritti egli descrive il Fascismo come un usurpatore nei suoi confronti. Nel Vittoriale non è presente alcun simbolo del Regime. Mussolini ha sempre preso sul serio D’Annunzio, capiva che poteva essere un rivale molto pericoloso. Per questo il Duce non ha mai voluto arrivare a una rottura pubblica con lui. Lo blandiva e lo lusingava.
Il Vittoriale non esisterebbe senza le sovvenzioni fasciste, ma esse avevano in primo luogo l’obiettivo di “tenere buono” il Vate potenzialmente ribelle. D’Annunzio era un autore celebre in tutto il mondo e una rottura pubblica, magari con un esilio volontario da parte del poeta, avrebbe inevitabilmente messo il fascismo in cattiva luce.
D’altra parte D’Annunzio ha sottovalutato il Duce, cui non riconosceva una statura culturale adeguata e di cui misconosceva il talento di negoziazione politica. Già molto anziano, D’Annunzio si fece comunque accompagnare alla stazione di Verona, dove sarebbe passato il treno di Mussolini in viaggio verso Berlino. A quanto pare, il poeta era lì per cercare di convincere Mussolini a desistere da ogni futura alleanza con Hitler».
Oggi D’Annunzio è poco studiato a scuola. Perché andrebbe riscoperto? Dovendo scegliere, meglio concentrarsi sul poeta, sullo scrittore, sul drammaturgo o sul giornalista?
«Rispondere è molto difficile. Il tratto caratteristico di questo autore è la frequentazione di più generi letterari, anche simultaneamente. A scuola si leggono di solito poesie tratte dall’Alcyone, il bellissimo diario di un’estate felice in Versilia. D’Annunzio ha inventato il mito moderno della vacanza, con elementi che sono poi diventati di massa come l’abbronzatura, i bagni, il relax sulla spiaggia, il contatto ritrovato con la vita della natura. Occorrerebbe però ampliare lo sguardo, perché egli è stato, nel bene e nel male, il protagonista e l’interprete del momento in cui l’Italia diventa moderna.
I romanzi sono interessanti per quello che riguarda temi ancora oggi all’ordine del giorno. Penso al rapporto fra i sessi. Sulla scena del mondo egli si presenta come il maschio conquistatore, ma nei suoi scritti le figure più vive e sfaccettate sono quelle femminili. D’Annunzio è il primo scrittore che a un livello alto rivendica il diritto delle donne al piacere sessuale. Dare espressione pubblica a tale diritto non era cosa frequente nella vita del tempo. I romanzi e anche il teatro hanno la forza di introdurre il lettore a certe inquietudini che cominciano a essere sentite proprio fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. E D’Annunzio parla del bisogno del sogno, che la letteratura deve appagare e che certo esercita un ruolo non secondario anche nell’attuale economia planetaria, con gli strumenti invasivi della comunicazione digitale di massa.
Per l’insegnante, credo, sarebbe fondamentale individuare un nucleo comune presente in tutte le maschere che D’Annunzio indossa nella sua avventura, al fine di raccordare l’esperienza di lettura di ogni pagina particolare a una visione dello scrittore il più possibile unitaria. Penso che sarebbe importante anche visitare il Vittoriale. È anch’esso un libro, un ultimo grandioso autoritratto, scritto non con le parole ma con le pietre, gli scenari naturali, il fantasmagorico arredamento, che simboleggia tutto l’estro e la personalità fuori dell’ordinario del poeta».
C’è un aneddoto poco conosciuto della vita dell’autore?
«Ricollegandomi a quanto detto prima, il manifesto di Marinetti parla di un automobile, al maschile, senza apostrofo. D’Annunzio stesso scriverà ad Agnelli affermando invece che l’automobile è femmina, ha tutte le caratteristiche della donna e in più una qualità di cui invece le donne paiono prive: l’obbedienza. Anche il nome di uno dei primi grandi magazzini italiani nasce dall’inventiva di D’Annunzio. A Milano, in questa Italia che si stava industrializzando, era sorto uno di questi nuovi centri di commercio, che andò in fiamme. Dopo che fu ricostruito, questo grande magazzino venne da lui ribattezzato La Rinascente.
Visto che abbiamo parlato di Hitler, esiste una pagina in cui D’Annunzio annotò un violento epigramma contro il dittatore nazista. Sembra proprio una caricatura satirica. Ponendo a contrasto le sue umili origini con le sue sfrenate ambizioni, Hitler è descritto come un imbianchino rozzo e prepotente, aggressivo e disumano, e viene irriso il suo modo di parlare al pubblico: “È rugghio il suo linguaggio”. Sembra quasi di sentire la voce di Hitler, il suo rauco tendere al grido, come stesse ruggendo! Questo è segno del grande sospetto che il poeta continuava a nutrire verso il mondo germanico. D’Annunzio amava la Francia. L’idea di un’alleanza con la Germania contro la Francia non poteva trovarlo d’accordo».
Che immagine avrebbe voluto lasciare a ottant’anni dalla sua morte?
«Forse si torna a quello che dicevamo all’inizio. D’Annunzio aveva certe tendenze profonde che lo hanno accompagnato lungo tutta la sua vita e che si riassumono in questo culto riservato all’arte e al momento della finzione come luogo in cui l’essere umano è più intenso e più vero che nell’esistenza quotidiana. In questo rientra quello che egli chiama il “bisogno del superfluo”, il bisogno profondamente radicato nell’uomo di avvalorare anche ciò che non sembra immediatamente legato a un vantaggio di ordine economico o commerciale. Questo è un messaggio che, anche nell’orizzonte attuale, ha il suo significato.
Egli stesso è stato tra i primi a capire che la bellezza è una delle grandi opportunità di cui può disporre una nazione come l’Italia. Quando si presentò come candidato al Parlamento, affermò: “La fortuna d’Italia è inseparabile dalle sorti della bellezza, cui ella è madre”. Si rendeva conto che la bellezza, intesa come paesaggi, monumenti, opere d’arte e di poesia, aveva un’alta valenza politica ed economica. E non a caso fu uno dei primi a porsi il problema della salvaguardia dell’ambiente e del nostro patrimonio artistico.
È vero d’altra parte che il suo vivere continuamente alla ribalta e in vetrina, sotto la luce dei riflettori, alimentava a contrasto in lui la consapevolezza di una vita più segreta e autentica, che emerge in certe pagine, stupende, dell’ultima fase della sua avventura, dal Notturno al Libro segreto. Sono pagine che, a mio giudizio, appartengono alla storia più alta del Novecento letterario, non solo italiano, ma anche europeo».