Territori Occupati: l’annessione continua in Cisgiordania

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L’annessione della Cisgiordania riguarda i Territori Occupati e il conflitto tra Palestina e Israele. È un argomento che Israele perpetua fin dalla sua creazione nel 1948, in perfetta armonia con l’ideologia sionista che vi ha dato vita. Il sionismo è un movimento politico-ideologico di fine XIX secolo che aveva come missione quella di riportare gli ebrei in Palestina. Nel 1901 fu creato il Fondo permanente per Israele, o Fondo nazionale ebraico, allo scopo di acquistare terreni nella terra promessa.

Per capire l’annessione è necessario pensare alla questione territoriale e quella demografica come elementi fondanti del conflitto israelo-palestinese, oltre che doverli includere nel contesto religioso-razziale che separa ebrei sionisti e arabi palestinesi. Lo storico Nur Masalha riporta che la dottrina di raggiungere “la massima annessione di terra con il minimo numero di arabi” era al centro dell’azione sionista già intorno alla seconda metà degli anni Trenta. David Ben-Gurion, il primo ministro del sionismo socialista, più tardi dirà: «Non ci sarà mai uno Stato ebreo forte e solido finché la maggioranza ebraica sarà soltanto del sessanta percento».

In un articolo apparso originariamente il 29 settembre del 1979 sul settimanale americano The Nation, James Baldwin, poeta, scrittore e attivista statunitense, ricorda le promesse fatte a palestinesi ed ebrei dalla corona inglese. Come egli descrive efficacemente, fin dalla dichiarazione di Balfour (1917), la Palestina è stata oggetto di cinque mandati britannici. In quel periodo, la popolazione ebrea crebbe a dismisura. La terra fu promessa ora agli arabi, ora agli ebrei, a seconda di cosa fosse più conveniente in un dato momento.

A seguito del primo conflitto arabo-israeliano, nel 1949, il neonato Stato d’Israele firmò trattati di pace con Egitto, Libano e Siria. Da vincitore, Israele tracciò personali confini al proprio territorio, in completa negazione del piano di spartizione previsto dall’ONU.

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Mappa di Israele e dei Territori Occupati. / Wikimedia Commons


La nascita dei Territori Occupati

Alla fine della guerra, Israele possiede il 77% della ex Palestina britannica. Una prima vittoria per il sionismo che è ancora ricordata dai palestinesi come la Nakba, la Catastrofe. Le forze sioniste espulsero circa 750.000 palestinesi, che trovarono rifugio nei vicini Paesi del Medio Oriente. L’agenzia delle Nazioni Unite UNRWA si occupa di fornire assistenza umanitaria ai rifugiati palestinesi che hanno perso casa e mezzi di sussistenza come risultato del conflitto del 1948, e ai loro discendenti. Nel 2019, erano 5,6 milioni i rifugiati palestinesi che potevano usufruire dei servizi dell’agenzia, che opera però solo tra Libano, Siria, Giordania e territori palestinesi.

Dalla Guerra dei Sei Giorni (1967), Israele occupa definitivamente la Cisgiordania (altrimenti detta West Bank, la terra a ovest del fiume Giordano), La Striscia di Gaza e Gerusalemme est. Solo con l’accordo di Oslo, nel 1993, la Cisgiordania è divisa in tre aree: A, B e C. All’Autorità Palestinese (PA) è affidata completamente la zona A, il 18% del totale dell’area, la Zona B è invece controllata in coordinamento con l’autorità israeliana. L’area C, che occupa il 60% della Cisgiordania, finisce sotto il totale controllo civile e militare israeliano.

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Dal 1967, la continua costruzione di insediamenti israeliani ha portato oltre 380.000 coloni nella West Bank e nella Striscia di Gaza. Dal 1993 al 2000 il numero dei coloni nella Cisgiordania occupata è aumentato del 100%. Il 5 giugno scorso il calendario ha segnato 53 anni di storia tra Israele e i Territori Occupati. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu è tornato a parlare di formalizzare l’annessione di quei territori proprio in giugno, subito dopo la formazione del nuovo governo. L’entusiasmo iniziale, però, è stato frenato subito, costringendo il premier israeliano a rimandare l’annessione a data da destinarsi.

Netanyahu Trump

Benjamin Netanyahu e Donald Trump all’aeroporto Ben Gurion, Tel Aviv. / Flickr

Il piano per l’annessione

Il 28 gennaio scorso Donald Trump ha proposto e condiviso un piano per la “pace” nel Medio Oriente. Come riporta Valigia Blu, il progetto tenta di continuare sulla linea pro-Israele imbracciata dall’amministrazione Trump, che nel 2018 aveva spostato l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, decretando de facto la sovranità israeliana sulla città santa. Nel piano era inclusa la creazione di un milione di posti di lavoro per i palestinesi e l’investimento di 50 miliardi nel nuovo, ipotetico, Stato palestinese.

In cambio, la PA avrebbe dovuto cedere parte della West Bank, l’area C a ridosso del confine con la Giordania, inclusa tutta la fertile Valle del Giordano. Considerando che, formalmente, l’area C è già considerata da Israele parte del suo territorio, l’unico risultato ottenuto sarebbe stato quello di trasferire forzatamente 260.000 palestinesi dalle loro abitazioni in Israele all’interno dei nuovi confini palestinesi. In questo modo, Israele avrebbe potuto finalmente accedere al confine orientale che brama da sempre e continuare a costruire indisturbato nei Territori Occupati.

Il territorio dei palestinesi sarebbe stato quindi ridimensionato e, ancora una volta, senza l’accordo dei palestinesi, nonché della comunità internazionale. Persino il sindaco della città che dovrebbe, secondo Trump, essere la nuova capitale della Palestina ha schernito il piano arrivato da Washington. Secondo Netanyahu, l’annessione è un obiettivo prioritario. Il nuovo governo è nato grazie al supporto di Blue and White, partito dell’opposizione centrista guidato dal rivale Benny Gantz. Anche se questa coalizione ha messo fine a uno stallo politico di 500 giorni, il suo futuro è fragile e incerto. Lo stadio finale del piano di annessione prevede che il 30% dei territori della Cisgiordania finisca sotto il completo controllo israeliano. Per riuscirci, il governo dovrà combattere le voci del dissenso, che non hanno tardato a farsi sentire.

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Preti ebrei ortodossi protestano a Londra contro gli insediamenti illegali in Cisgiordania e la violenza del sionismo nella Striscia di Gaza. / Flickr

L’opposizione al piano

Secondo il New York Times, esperti della sicurezza israeliana hanno cercato di avvertire Netanyahu dei pericoli a cui sta andando incontro. Mantenere la stabilità al confine giordano è una priorità, come lo è evitare di riaccendere le proteste all’interno dei Territori Occupati. In particolare, gli esperti spingono il premier a fare attenzione al potenziale isolamento internazionale che l’annessione porterebbe con sé.

Anche all’interno del governo ci sono stati dissapori riguardo la presa di posizione di Netanyahu. Il Ministro degli Esteri in quota Blue and White, Gabi Ashkenazi, in linea con le dichiarazioni di Benny Gantz fatte qualche giorno prima, ha affermato che la data del primo luglio non era una data intoccabile, soprattutto con l’emergenza COVID e la crisi economica in atto.

L’Autorità Palestinese ha risposto minacciando di chiudere qualunque rapporto con la Knesset (il parlamento monocamerale israeliano) se la sovranità della Cisgiordania verrà violata unilateralmente. Ha aggiunto che smetterebbe di pagare decine di migliaia di propri impiegati e agenti di polizia, e taglierebbe i fondi da cui la Striscia di Gaza è dipendente. Fare in modo, quindi, che l’Autorità Palestinese collassi e le rivolte aumentino. Così facendo, lascerebbe campo libero alle frange estremiste come Hamas, l’organizzazione terroristica che governa la Striscia.

Infine, la PA ha presentato una controproposta al piano di Washington, per sottrarre agli Stati Uniti il ruolo di unico mediatore. In tutto questo, la sinistra israeliana continua a spingere per la cosiddetta soluzione a due stati, anche se sono in molti a vederla ormai come un miraggio. Come scrive Zehava Galon su Haaretz, la sinistra israeliana deve riconoscere che la possibilità di uno Stato della Palestina sta sfumando e, soprattutto, che la Cisgiordania e Gaza sono governati da una politica di apartheid.

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Bambino palestinese al check-point israeliano. / Flickr

La politica colonialista di Israele

Per molti è difficile pensare alla questione palestinese in questi termini. Questo perché si conoscono poco le condizioni dei neri nel Sud Africa dell’apartheid, spiega Galon. La Palestina, ormai da molti anni, assomiglia sempre più ai Bantustan, i protettorati che il Sud Africa creò per confinare la popolazione nera, dotati di una sovranità fittizia e uno sviluppo estremamente povero. Dal 2002, Israele ha costruito in Palestina un muro di separazione alto otto metri e lungo 730 km. In più punti, lo ha fatto valicando il confine tracciato durante l’armistizio del 1967 (la cosiddetta Green Line), inglobando alcuni insediamenti ritenuti illegali dalle Nazioni Unite e la quasi totalità dei pozzi d’acqua.

Secondo i dati forniti da BTselem, dal 2006 al 30 giugno 2020 Israele ha demolito almeno 1584 abitazioni di proprietà di cittadini palestinesi nella West Bank, lasciando oltre seimila persone senza una fissa dimora. I palestinesi hanno pochissime possibilità di ottenere un permesso per costruire, persino sulla terra di cui sono proprietari. Questo processo è aggravato da leggi che regolano lo sviluppo delle comunità israeliane in totale disprezzo di quelle palestinesi, come la Legge sulla pianificazione edile. Come denuncia un documento della World Bank, l’accesso alle risorse naturali è a vantaggio degli israeliani, che a loro volta riforniscono la West Bank. O ancora, la Legge sulla proprietà degli assenti ha permesso a Israele di impossessarsi dei terreni lasciati vacanti dai palestinesi in fuga.

Il 19 luglio 2018, la Knesset ha approvato la Legge sullo Stato-Nazione, in cui si riconosceva la natura puramente ebrea dello Stato di Israele. In uno degli articoli di questa legge si parla di incoraggiare gli insediamenti, considerati un motivo di orgoglio nazionale. Israele ha creato, nei Territori Occupati, due regimi di trattamento differenti, applicando due sistemi di leggi che discriminano unicamente sulla base della nazionalità.

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Il muro di separazione nella West Bank. / Wallpaperflare

La legge internazionale

Durante la protesta denominata “marcia del ritorno” a Gaza, nel 2018, dei dimostranti si sono avvicinati al confine israeliano. Le truppe di guardia hanno aperto il fuoco, uccidendo 183 manifestanti, tra i quali 35 minori. Il 28 febbraio 2019, la commissione delle Nazione Unite che indagava sulle proteste ha dichiarato illegittime le regole di ingaggio dei militari israeliani sui civili disarmati. Israele ha dimostrato più volte di agire senza alcun rispetto della legge internazionale. È il caso degli insediamenti in Cisgiordania, che violano apertamente il diritto umanitario internazionale.

Secondo la quarta Convenzione di Ginevra (1949), l’articolo 49 vieta a una forza occupante di trasferire la propria popolazione nel territorio occupato. Portare più coloni possibili all’interno dei Territori Occupati è sempre stato l’obiettivo di Israele. In più, BTselem ricorda che gli insediamenti, e l’occupazione in generale, violano il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, alla loro libertà di movimento, al loro sviluppo. La Corte Penale Internazionale (ICC) ha aperto un fascicolo nel 2015, per valutare le violazioni e i crimini di guerra commessi da Israele nei Territori Occupati. Le Nazioni Unite si erano già espresse, con la risoluzione 497, riguardo l’occupazione delle alture del Golan siriane, che nel 1981 finirono definitivamente sotto giurisdizione israeliana.

Lo scorso dicembre, il procuratore della ICC Fatou Bensouda ha annunciato che le condizioni per l’apertura di un’investigazione erano finalmente state raggiunte. Uno dei primi nodi da sciogliere era se considerare o meno la Palestina come uno Stato, una decisione che avrebbe potuto bloccare l’apertura dell’indagine. Sette Paesi, tutti con forti legami economici e diplomatici con Israele, si sono astenuti o hanno votato contro la decisione di considerare la Palestina uno Stato a tutti gli effetti. Di contro, la Lega Araba (22 Paesi) e l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (57 membri) hanno entrambi votato a favore del provvedimento.

Gaza

Durante le proteste a Gaza. / Wallpaperflare

Il futuro dei Territori Occupati

Secondo il Washington Institute, questo voto dovrebbe darci un’idea di quello che attende la Palestina. I ministri degli Affari Esteri di Francia, Egitto, Germania e Giordania hanno dichiarato in un documento congiunto la volontà di voler rivedere i propri rapporti con Israele nel caso in cui si decida di dare il via all’annessione. Eppure, la Germania è uno di quei sette Paesi che si è astenuto durante il voto alla Corte Penale Internazionale e la Giordania preferirebbe di gran lunga la presenza militare israeliana al confine piuttosto che quella palestinese.

All’interno dei Paesi del Golfo la contrarietà verso le azioni di Israele in Cisgiordania sembra ferma. Continuare su quella strada vorrebbe dire deteriorare i rapporti che Israele sta cercando di migliorare con i Paesi arabi. Al tempo stesso, spiega il Washington Institute, Israele è in una posizione invidiabile. Molti attori globali, inclusi i Paesi del Golfo, la Russia e la Cina, vedrebbero di buon occhio una soluzione definitiva alla questione palestinese. In ogni caso, Netanyahu vuole sbrigarsi, perché il tempo stringe. Ha bisogno di agire prima delle elezioni americane, anche se lo stesso Joe Biden, il candidato che sfiderà Trump e i repubblicani a novembre, non sembra distanziarsi molto dalle sue posizioni.

A metà luglio, i ministri degli Esteri di undici Paesi europei hanno chiesto all’Unione una risposta più chiara sulle azioni da intraprendere contro Israele. Si pensa a delle sanzioni, come quelle che colpirono la Russia in seguito all’annessione della Crimea. Giovedì 13 agosto, Donald Trump ha twittato trionfante che l’accordo stretto tra Israele e Emirati Arabi Uniti avrebbe messo definitivamente la parola fine alla questione palestinese. Come sempre, i palestinesi non sono stati interpellati. È chiaro che senza sviluppo i Territori Occupati resteranno tali. Senza una crescita nell’area C, la Palestina non conoscerà mai il riscatto e i palestinesi non conosceranno mai il benessere. Questo, e molto altro, vuol dire occupazione nel XXI secolo.

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Simone Manda

Giornalista in erba, napoletano, cresciuto a Civitavecchia e innamorato di Roma, soprattutto ad Agosto. Ora sono iscritto alla scuola di giornalismo investigativo della Fondazione Lelio e Lisli Basso. Ho una laurea in lingue orientali e la passione per i viaggi, oltre che per le lingue. Ho vissuto in Australia e in Francia, lavorando nella ristorazione come cuoco. "Una storia vuol dire leggere, studiare, prepararsi. Fotografare vuol dire cercare nelle cose quel che uno ha capito con la testa. La grande foto è l'immagine di un'idea." - Tiziano Terzani