Alla ricerca dell’affetto stabile
Comincia ufficialmente oggi la Fase 2 in Italia. Riaprono alcuni negozi e parchi, pur nel rispetto del distanziamento interpersonale. Soprattutto, in quanto animali sociali, riconquistiamo la possibilità di incontrare le persone delle quali abbiamo sentito la mancanza durante il periodo di quarantena forzata, purché familiari o legati a noi da un affetto stabile.
Palazzo Chigi ha pubblicato le FAQ del Decreto del 26 aprile entrando nel merito degli affetti stabili. «L’ambito cui può riferirsi la dizione “congiunti” può indirettamente ricavarsi, sistematicamente, dalle norme sulla parentela e affinità, nonché dalla giurisprudenza in tema di responsabilità civile. Alla luce di questi riferimenti, deve ritenersi che i “congiunti” cui fa riferimento il DPCM ricomprendano: i coniugi, i partner conviventi, i partner delle unioni civili, le persone che sono legate da uno stabile legame affettivo, nonché i parenti fino al sesto grado (come, per esempio, i figli dei cugini tra loro) e gli affini fino al quarto grado (come, per esempio, i cugini del coniuge)».
Non sono certo mancate le critiche all’impostazione familiarista del governo Conte, secondo alcuni anacronistica, soprattutto in relazione alla zona d’ombra che cade su quelle relazioni altrettanto, se non più, intense ma impossibili da riconoscere giuridicamente: i rapporti di coppia al di fuori dell’unione civile, matrimonio, convivenza e le varie forme d’amicizia.
La domanda che sorge spontanea è come si definisca un affetto, e la stabilità in relazione ad esso. Può una norma giuridica sindacare in un campo forse più appartenente alla filosofia?
Le parole usate nel DPCM nell’ambito sono in alcune parti di difficile decifrazione, specie nella dicitura «persone che sono legate da uno stabile legame affettivo». Lasciano un ampio spazio interpretativo che sarebbe rischioso far ricadere sui singoli elementi delle forze dell’ordine che dovranno far rispettare il decreto. La formulazione è quantomeno ambigua, e manca dell’astrattezza che dovrebbe in linea teorica caratterizzare una fonte legislativa.
Un esempio eclatante sono stato le dichiarazioni del viceministro della Sanità Sileri (Movimento 5 Stelle) di qualche giorno fa. «Andare anche a casa di un amico dal 4 maggio? Sì, se è un amico vero, se non è una scusa». Illusioni subito vanificate da Palazzo Chigi che ha espressamente spiegato che «l’amicizia non rientra negli affetti stabili». Insomma, una chiarezza che manca all’interno dell’esecutivo stesso.
Tra le tante definizioni di affetto (in quanto sostantivo) c’è «l’attaccamento per qualcosa, in grado di commuovere l’animo». Si aggiunge – per estensione – un «momento buono di intimo e sincero sentire, sia in famiglia sia nell’amicizia e nell’amore». Tra i sinonimi di affetto figura proprio la parola amicizia. Alla luce di una banale osservazione linguistica, la sicurezza ostentata dall’esecutivo nell’escludere l’amicizia dagli affetti stabili è perlomeno affrettata. L’impressione è che sulla scia dei decreti di marzo e aprile il governo continui a selezionare “chi” può compiere una determinata azione. Nella Fase 2 però dovrebbe essere più importante il “come” riuscire (tutti) a tornare almeno all’apparenza di una normalità.
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Le relazioni umane e interpersonali sono per natura dinamiche e variabili. La stabilità di un rapporto può esistere solamente sulla carta stampata del decreto.
Nell’ambito dell’etica la parola “affetto” viene spesso contrapposta a “passione”, scevra rispetto alla prima dall’elemento sensuale. La prima duratura e placida, la seconda veemente e talvolta passeggera. Naturale è che nella propria esperienza coniugale (o extra-coniugale, che al momento non è chiaro in che forma sia considerata dal decreto) ognuno avrà la propria soggettiva visione e commistione di affetto e passione. Neanche tenendo conto di tutti i punti di vista potremmo mai arrivare a una definizione univoca del pàthos. La stessa amicizia può intensificarsi o spegnersi, mutarsi in amore e viceversa, senza che ci sia una chiara né decifrabile razionalizzazione di questo processo spesso sconosciuto persino a noi stessi. La pretesa da parte di un governo di leggere nella più recondita intimità delle persone e inquadrare un affetto farebbe rabbrividire anche Spinoza e Cartesio.
La stessa “stabilità” è inesistente nella pratica di un rapporto sinceramente affettivo. Già Aristotele ci disse che la nostra anima come una tabula rasa viene impressa dall’esterno e che ogni affezione può anche riguardare un cambiamento di stato per la persona coinvolta. Cioè, «una modificazione o carattere sopravvenienti a una sostanza, come l’essere musico o l’essere bianco per l’uomo». L’unica stabilità e rigorosità riconoscibile dal decreto è quella del grado parentale. Grazie a questa potremo incontrare il figlio di nostro cugino ma non l’amico che vent’anni fa ci ha salvati da un periodo difficile, e magari vive a poche decine di chilometri dal luogo in cui ci troviamo in questo momento.
Al di là delle considerazioni etiche, è pericoloso per uno stato di diritto sindacare sui sentimenti dei propri cittadini
Basti pensare che, leggendo alla lettera il decreto, una persona anaffettiva, alessetimica o sofferente del disturbo antisociale di personalità che vada a casa di Caio poiché gli è riconosciuto sta in realtà violando il decreto stesso. Una persona “sana” che il giorno dopo va a trovare Caio e con il quale intrattiene lo stesso tipo di rapporto lo sta invece rispettando. Questo è ovviamente un paradosso che difficilmente capiterà nei prossimi giorni. Come ha però ricordato Avvenire, dobbiamo tenere a mente che quello che dobbiamo perseguire è il distanziamento “fisico” e non quello “sociale”.
Probabilmente dal 4 maggio in avanti i controlli stessi saranno meno stringenti. Non avremo il record di multe come il giorno di Pasquetta e il DPCM volutamente ambiguo serve a non far passare l’idea che stia scattando il «tana libera tutti» che molti temono. Sappiamo che spesso sarà proprio chi ci controlla a chiudere un occhio per noi, specie se scatta della simpatia (altro sinonimo di affetto, tra l’altro). Carino per un Paese democratico, vero?
Il guaio è proprio lo Stato che seriamente crede di poter classificare gli affetti e definire quelli “più meritevoli di tutela”. Un paternalismo a cui ci siamo disabituati e che forse neanche vogliamo più, in un secolo che, per quanto breve, ha già fatto saltare molti dei vecchi schemi per fare posto a nuove forme di amore, amicizia, comunanza, unione. Non sarà un decreto a farci scegliere per chi val la pena provare affetto.