«La normalità era il problema»: theWise incontra Rossella Muroni
Partiamo dalla fine: come si dovrà ripartire una volta conclusa la pandemia? E in ciò può giocare un ruolo la questione climatica?
«Quello che non possiamo assolutamente permetterci è di sbagliare la fase due: significherebbe far ripartire il virus. Io sono un po’ preoccupata dalle fughe in avanti che chiedono tanto alcune associazioni di categoria quanto alcuni territori. Dobbiamo davvero affidarci alla scienza, ferma restando la responsabilità politica di ogni scelta, e non fare passi falsi. Far ripartire la curva perdendo l’appiattimento guadagnato con tanti sacrifici sarebbe un errore madornale.
Per quanto riguarda le intersezioni con la questione climatica, beh, magari tutto questo ci avesse insegnato che – come dice uno splendido motto – la normalità era il problema, e non possiamo ricostruire come prima. Ci siamo illusi di poter essere sani in un mondo malato, ma questo non è possibile, specie quando la malattia del pianeta si chiama cambiamento climatico. Possiamo e dobbiamo immaginare una ripartenza che privilegi un’economia pulita e di uguaglianza.
È paradossale come il lockdown abbia permesso alla natura di riprendersi alcuni dei suoi spazi: penso all’abbattimento delle emissioni, dello smog, al ritorno della fauna in ambienti antropizzati. Sarei felice se questa tragedia si rivelasse l’occasione per mettere in discussione quel paradigma che vede il più forte prevalere sul più debole e l’uomo come unico abitante del pianeta. Abbiamo visto come le crisi siano spesso pagate dai più poveri, dagli indifesi, e proprio per questo sarebbe ora più che mai necessario investire nella sanità e nella scuola pubblica.
Davvero la ripartenza porterà con sé questo cambio di paradigma? Lo vedremo, ma mentirei se le dicessi di essere ottimista».
Non crede che il senso comune degli italiani possa mutare in direzione più egualitaria dopo questa crisi?
«Penso che possa succedere nella cultura generale e, anzi, forse un processo di questo genere era già in atto. Ci si stava accorgendo in questi ultimi anni di come il consumo non sia l’unico parametro con cui misurare la qualità delle nostre vite, e in queste settimane di quarantena penso sia ancora più evidente per tutti. Il consumismo a tutti i costi, ora è palese, non è di certo sinonimo di salute. Era questa, d’altronde, la sfida dell’ecologismo classico: fare della cultura scientifica ed ecologista una cultura popolare.
Ma questa consapevolezza crescente non arriva a sfiorare chi sta in alto. Abbiamo un problema enorme di cultura della classe dirigente, sia essa economica, politica, mediatica o accademica. È un gap che potrebbe impedirci di cogliere l’occasione di cui parliamo.
Pensi alle nuove nomine dei dirigenti pubblici. È stato confermato Claudio Descalzi alla guida di ENI, l’uomo che ha tenuto l’azienda saldamente legata ai combustibili fossili e che, come amministratore delegato, si trova con un’indagine in corso per corruzione. Ecco, notizie come questa non fanno ben sperare».
Lei ha messo al centro del suo mandato parlamentare la questione climatica ed ecologica, ma questa attenzione non sembra essere condivisa dal resto del mondo politico. In cosa sbagliano secondo lei i suoi colleghi?
«Io vengo dal mondo dell’attivismo e ho un profilo ben delineato su questi temi. Avverto una certa solitudine in parlamento, non lo nascondo. Ricordo ancora come, quando proposi la mozione contro i pesticidi che pure venne approvata all’unanimità, negli scranni alcuni sorridessero ironicamente. Ma io rivendico questa mia diversità. Sembrava aleatorio parlassi in aula di api, ma le api sono un bioindicatore, se muoiono significa che stiamo andando verso un ambiente sempre più inospitale anche per la vita umana. C’è una battaglia culturale da portare avanti, e la politica non ci crede davvero.
Dal basso l’istanza però c’è ed è forte (penso in primis alle piazze dei Fridays For Future). Se i partiti non si vogliono rendere conto che la salute e l’ambiente sono temi seri, che riguardano da vicino la vita delle persone, compiono un errore madornale».
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Il governo si è insediato parlando di Green New Deal e riconversione ecologica, e il suo nome era stato dato fra i papabili per il Ministero dell’Ambiente. Qual è oggi il suo giudizio sull’operato del ministro Costa e dell’esecutivo in generale?
«Le voci sulla mia possibile nomina erano in realtà ricostruzioni puramente giornalistiche, non c’era nulla dietro. Io ho votato la fiducia al Conte II perché il Presidente si è presentato alle camere parlando di Green New Deal – a cui toglierei “new”, visto che non c’è niente di nuovo, anzi siamo in ritardo – come elemento identitario dell’esecutivo. Se mi si chiede se poi alle parole sono seguiti i fatti, beh, rispondo di no. Il Decreto Clima, che pure ho votato, si è rivelato molto timido, e l’Italia stenta ancora a riconoscere quali siano le sue potenzialità in questo fronte. E intendiamoci: non sto parlando di decrescita felice. La transizione deve essere fatta soprattutto di lavoro verde. Io penso al benessere delle persone, ma quello vero, fatto di salute e giustizia sociale. È un progetto complessivo che bisogna avere in mente.
Questo governo è pieno di pulsioni diverse, e ciò impedisce di fare quanto sarebbe necessario. Penso all’affondamento della plastic tax, che io pure ho criticato nel metodo, perché penso vada accompagnata da un pacchetto di misure che aiutino le aziende a riconvertirsi. Così come nessuno in questo momento si sta occupando di salvare chi si occupa di economia circolare.
Ho l’impressione che il virus abbia un po’ azzerato i passi avanti fatti in questi anni, e davvero non ce lo possiamo permettere. Ho fatto un’interrogazione in aula al ministro Costa proprio per consentirgli di dire che il Ministero c’è, è attento e giocherà un ruolo da protagonista in questa crisi. Ma se non creiamo un nuovo progetto industriale del Paese basato sulla riconversione e l’economia circolare perdiamo un’occasione epocale».
E invece sull’operato dell’Unione Europea che giudizio da? La convince l’European Green Deal della von der Leyen?
«L’Europa è un riferimento necessario, ne sono convinta. Poi, nasciamo come unione del carbone e dell’acciaio [la CECA, antenata dell’attuale UE, N.d.R.], e non è chiaro a tutti che bisognerebbe rifondare l’Unione sulle rinnovabili e l’economia circolare. Dovremmo lavorare sull’identità di popolo europeo: probabilmente i giovani iniziano a sentirla.
Detto ciò, se nemmeno in questo momento di difficoltà si riesce a trovare un meccanismo di solidarietà comunitario, sarà sempre più difficile difendere l’idea di Europa, e il gioco sovranista avrà vita facile. Anche perchè la narrazione è quella di un’Europa matrigna che ci lascia soli, mentre io farei notare che l’Italia a Bruxelles ci sta molto poco e in maniera disattenta. Manchiamo sempre ai tavoli di discussione più importanti, e questo è un nostro limite.
Io sogno un’Europa diversa, un’Europa verde. Credo in un continente che si affacci anche alla competizione internazionale in modo radicalmente differente, puntando sulla qualità e l’innovazione piuttosto che sulla compressione dei salari e dei diritti. Una strategia quest’ultima che, oltre ad essere immorale, si è rivelata perdente, visto che ci sarà sempre un Paese del terzo mondo disposto ad accettare ancor meno tutele di noi.
Scuola e sanità pubblica, lo ripeto, devono essere due degli assi portanti di questo progetto. Ma l’Europa è l’unico ambito in cui vedo il nostro futuro».
La porto allora sull’attualità: voterebbe a favore di un eventuale ricorso al MES?
«Ho difficoltà a intervenire in una discussione così ideologica, e la definisco così senza assolutamente volerla svilire. C’è un problema di meccanismi già esistenti, e dobbiamo mettere in atto misure che possano essere attuate subito, quindi voglio essere laica in questo dibattito.
Detto ciò, il MES ha una storia pesante, basti pensare a quanto è successo in Grecia. Bisognerebbe poter usare il MES come una scatola già pronta ma riempita in maniera totalmente nuova, con meccanismi di aiuto agli Stati che evitino il rischio di commissariamento già visto nelle vicende di Atene. Se restano quei vincoli di cui si parla non vedo margini di mediazione.
Mi domando al contempo quale siano le alternative. Io penso che l’Europa nella capacità di sostenere gli Stati membri in questa partita si giochi gran parte del suo futuro. O vinciamo questa battaglia tutti insieme o non ne usciamo vivi.
Penso anche che in Italia ci sia un dibattito un po’ isterico su questi temi, mentre gli altri Stati stanno mantenendo un atteggiamento più pragmatico».
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Lei è ottimista sul futuro del Paese?
«Io sono ottimista per una ragione personale: ho due figli, di 10 e 15 anni, a cui insegno che c’è sempre una battaglia che vale la pena combattere, che bisogna costruire una società migliore, che il bene comune va difeso senza tentennamenti. Penso che questi fronti di cui abbiamo parlato – l’ambiente, l’Europa, la giustizia sociale – vadano presidiati a ogni costo e in ogni modo.
Poi certo, alcune cose mi preoccupano molto. Per dirne una, la vicenda dei trattati internazionali (TTIP, CETA, Mercosur-UE) che in nome della concorrenza tentano di mortificare diritti dei lavoratori e qualità dei prodotti che un Paese come il nostro ancora garantisce.
Sono un’ottimista preoccupata, ecco».