Cosa significa sospendere il Patto di Stabilità e Crescita
Con milioni di contagi e migliaia di morti, l’Europa è diventata nelle ultime settimane il centro della diffusione del Covid-19. Gli Stati europei stanno provando a destreggiarsi nella pandemia con misure preventive per ridimensionare il contagio e per affrontare l’attuale crisi sanitaria, ma anche con misure in grado di attenuare i futuri danni economici. Soprattutto nel contesto economico, l’Unione Europea dovrà giocare un ruolo fondamentale.
Inizialmente, l’approccio europeo è sembrato molto blando e poco chiaro. Le azioni in aiuto degli Stati sono spesso state offuscate da parole e dichiarazioni fatte nel modo e nel momento sbagliato. Ad ora, il processo decisionale è in stallo. I ventisette leader durante il Consiglio europeo del 26 marzo non sono riusciti a raggiungere un accordo sui cosiddetti corona bond. Intanto, però, le istituzioni hanno cominciato ad intraprendere azioni concrete, a dimostrazione del fatto che l’approccio sovranazionale è spesso più veloce ed efficace di quello intergovernativo. A fare maggior scalpore è stata, senza dubbio, la proposta della Commissione, poi approvata dal Consiglio, di sospendere per la prima volta nella storia il funzionamento del Patto di Stabilità e Crescita.
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Che cos’è il Patto di Stabilità e Crescita
Il Patto di Stabilità e Crescita (PSC) è un accordo stipulato dagli Stati membri dell’Unione Europea nel 1997 con lo scopo di monitorare e coordinare le diverse politiche fiscali. La politica di bilancio rimane una competenza degli Stati nazionali. Tuttavia, alla fine del secolo scorso la sempre maggiore interconnessione delle economie europee e l’istituzione dell’unione monetaria convinsero i Paesi ad adottare delle regole comuni per tenere sotto controllo le rispettive politiche fiscali e rafforzare il processo di integrazione. Inizialmente, il Patto di Stabilità obbligava gli Stati membri della zona euro a rispettare due parametri. Si dovevano mantenere il rapporto deficit/Pil sotto il 3% e il rapporto debito pubblico/Pil sotto il 60%. I Paesi, inoltre, avevano l’obbligo di presentare un “programma di stabilità” triennale. In caso di non adeguamento a questi parametri, gli Stati potevano incorrere in procedure d’infrazione da parte della Commissione Europea.
Le modifiche al Patto di Stabilità
Il Patto di Stabilità fu accusato fin da subito di incoraggiare politiche pro-cicliche, favorendo l’andamento negativo dell’economia durante le recessioni, ma soprattutto di avere un’ottica eccessivamente di breve termine nella sua applicazione. Per ovviare a quest’ultimo problema, nel 2005 il PSC subì la prima modifica. Gli Stati furono obbligati ad introdurre nei loro programmi di stabilità degli “obiettivi di medio termine” per raggiungere in tre anni il pareggio di bilancio.
La crisi finanziaria scoppiata nel 2008, poi, portò alla luce diversi problemi relativi alla governance economica. In particolare, i tempi di reazione dell’Unione furono troppo lenti rispetto a quelli di molti altri Paesi del mondo. Quindi, nel 2011, anche alla luce della crisi del debito sovrano, il Patto di Stabilità subì la seconda e più incisiva modifica. Gli Stati adottarono il cosiddetto six-pack, costituito da cinque regolamenti e una direttiva riguardanti le misure di prevenzione e correzione degli squilibri macro-economici, il chiarimento della procedura per disavanzi eccessivi, il rafforzamento della sorveglianza delle politiche fiscali e di quelle di bilancio e la definizione dei requisiti per i quadri di bilancio.
In seguito, nel 2013 gli Stati approvarono il two pack, due regolamenti che hanno lo scopo di rafforzare ulteriormente la sorveglianza sui progetti di bilancio nazionali. Sempre nel 2013, venne introdotto il Fiscal Compact (Trattato sulla Stabilità, il Coordinamento e la Governance). Gli Stati hanno dovuto inserire nei propri ordinamenti, con una legge di rango costituzionale, una regola di bilancio che imponga un limite al deficit strutturale dello 0,5% del PIL.
Nel caso uno Stato membro non rispetti uno dei parametri previsti dal Patto, la Commissione può avviare due diversi tipi di procedure di infrazione. Uno è il cosiddetto braccio preventivo, che evita che i Paesi violino i parametri di spesa pubblica e, soprattutto, l’Obiettivo di Medio Termine. C’è poi il più noto braccio correttivo. Con esso la Commissione può aprire una Procedura per Disavanzo Eccessivo, nel caso uno Stato membro sfori i limiti relativi al deficit e al debito pubblico.
L’attivazione della clausola di fuga
I parametri imposti dal Patto di Stabilità e Crescita, criticati in quanto considerati troppo rigidi anche in situazioni normali, risultano praticamente impossibili da rispettare nell’attuale crisi causata dalla diffusione del Covid-19. Per questo, il 20 marzo la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha annunciato la sospensione temporanea del Patto di Stabilità e Crescita. Nel pratico, si tratta dell’attivazione della general escape clause introdotta nel trattato nel 2011. La clausola dovrebbe essere attivata nel caso in cui l’intera zona dell’Unione si trovi in una situazione di crisi generale e una conseguente recessione economica. Essa permette agli Stati Membri di deviare temporaneamente dai normali parametri previsti dal PSC e di usare la politica di bilancio e di spesa pubblica come arma per contrastare la crisi.
L’attivazione della “clausola generale di fuga” è una decisione di portata storica per l’Unione Europea. Si tratta della prima sospensione del Patto da quando esso è stato adottato. Secondo la von der Leyen, era un passo necessario per affrontare l’attuale crisi. Nel suo messaggio, la presidente della Commissione ha affermato: «La massima flessibilità per le regole di bilancio consentirà ai governi nazionali di supportare diversi settori: i loro sistemi sanitari, il personale e le persone gravemente colpite dalla crisi». Anche il Commissario all’economia, Paolo Gentiloni, ha accolto l’annuncio positivamente. «L’attivazione della cosiddetta escape clause del patto di stabilità apre la strada a una risposta forte e coordinata all’immensa sfida economica che dobbiamo affrontare tutti insieme».
La risposta europea alla crisi Covid-19
Un’importante passo verso una risposta europea alla crisi è quindi arrivato, ma il percorso per tentare di ridimensionare i danni economici derivanti dall’attuale situazione è ancora lungo. Intanto, la Banca Centrale Europea ha annunciato un programma straordinario per contrastare gli effetti della pandemia: il Pandemic Emergency Purchase Program. Si tratta di un rinnovo di un quantitative easing da 750 miliardi di euro per l’acquisto di obbligazioni dei Paesi membri dell’eurozona. La quota italiana ammonta a circa 220 miliardi. Il Consiglio europeo tenutosi il 26 marzo, invece, si è concluso praticamente in un nulla di fatto. I ventisette leader hanno approvato l’attivazione della clausola di fuga del Patto di Stabilità, ma non sono riusciti a trovare l’accordo sulla creazione dei corona bond. Si tratta di titoli di Stato comuni che permetterebbero di finanziarie le spese straordinarie che tutta la zona euro dovrà affrontare.
Lo scontro tra i Paesi è più forte che mai. Il fronte del Nord guidato da Germania e Olanda è fortemente contrario alla creazione degli Eurobond. Il gruppo di Paesi che rifiuta l’austerità, invece, si è allargato in questa fase. Alla solita formazione (Italia, Spagna, Grecia e Portogallo) si sono uniti anche l’Irlanda, il Belgio, la Slovenia, il Lussemburgo e, soprattutto, la Francia. Questi ultimi chiedono maggiore cooperazione e solidarietà. Per adesso, ogni decisione è stata rimandata e la palla passa di nuovo all’Eurogruppo.
Il futuro per l’Unione Europea
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Dunque, le misure per fronteggiare la pandemia potrebbero esserci. A mancare in Europa è una strategia di lungo termine economica e politica. Il mondo come lo conosciamo uscirà profondamente cambiato da questa crisi globale. L’Unione Europea dovrà seguire questo cambiamento, o scomparirà. Non si può pensare di uscire dalla pandemia con gli schemi di sempre. Ci sarà bisogno di una revisione della struttura e delle capacità dell’organizzazione. E dovranno essere gli Stati membri a farsi carico delle riforme necessarie. In questa situazione, l’UE non ha competenza esclusiva né in materia di salute pubblica né in materia di politica fiscale. I Paesi hanno quindi una certa dose di autonomia nel decidere le proprie politiche in questi ambiti. Inoltre, tutti gli Stati membri hanno approvato all’unanimità gli obblighi e i parametri imposti alle politiche di bilancio. Qualsiasi altra loro modifica richiede ancora l’unanimità.
Dunque, due sono le vie che l’Europa si trova davanti da ormai qualche anno. Questa crisi probabilmente accelererà solamente il processo di evoluzione. Si possono seguire gli spiriti sovranisti e nazionalisti e si mantiene un’Europa “minima” che si occupi solamente di commercio e mercato unico. Oppure si può seguire il trend globale e approfondire i legami che uniscono i nostri Paesi, dando maggiori poteri a Bruxelles per renderla in grado di rispondere prontamente alle crisi e non solo.
Questa pandemia sta dimostrando che, nell’attuale contesto globale, i nostri Paesi non sono in grado di affrontare e prevenire determinati rischi da soli, siano essi un’epidemia o il cambiamento climatico. Neanche la chiusura dei confini può proteggerci da tutto. I nostri sistemi sono talmente integrati che è impossibile chiudersi in sé stessi. E se l’Italia, o qualunque altro Paese europeo, ha intenzione di giocarsi ancora le sue carte sullo scacchiere internazionale, l’unica via possibile è una maggiore integrazione europea. Ad ogni modo, che sia da un lato o dall’altro, i leader dell’Unione Europea presto saranno messi di fronte ad una scelta, e probabilmente sarà la scelta più importante dei prossimi decenni.