Inps, uno scherzo che non fa ridere
Quello del 1 aprile 2020 da parte dell’Inps non è, per fortuna o purtroppo, una burla nei confronti dei propri cittadini; anche perché ci sarebbe poco da sorridere, di questi tempi. A onor del vero, il pacco del governo non rimarrà per sempre vuoto. Il bonus di seicento euro previsto dal decreto Cura-Italia alla fine della fiera arriverà nelle tasche dei beneficiari (e cioè lavoratori autonomi, liberi professionisti non iscritti a casse di previdenza obbligatoria, collaboratori coordinati e continuativi, lavoratori stagionali e dello spettacolo). Eppure, ci sono parecchie riserve sulla reale copertura della mini-iniezione di liquidità alle partite IVA et similia (nonostante il ministro dell’Economia Gualtieri assicuri che le misure saranno implementate all’esaurirsi delle risorse).
Ciò che è successo nella prima mattinata di mercoledì è però disastroso, per l’Inps e per l’immagine stessa dello Stato di fronte ai suoi cittadini: sito non raggiungibile per diverso tempo e aperte violazioni della privacy. I fortunati utenti che sono riusciti a caricare la pagina d’accesso e inserire il proprio nominativo e PIN sono molto spesso capitati nei profili di persone terze totalmente randomizzate ma altrettanto esistenti, con tanto di dati personali (come la situazione di invalidità, secondo ilPost) e bancari (secondo Il Fatto Quotidiano) in bella vista. Una pessima figura per una misura già imperfetta e parziale di suo. Più persone, per esempio, si sono imbattute nel profilo del malcapitato Luciano Vangone, divenuto una sua insaputa una triste quanto casuale celebrità del web. Senza volto, ma con molti dati sensibili a vista.
Informazioni confusionarie, mancanza di precauzioni informatiche; Conte e Tridico parlano di un attacco hacker contro il sito Inps in corso da diversi giorni
L’origine del caos risale a martedì scorso, quando proprio l’Inps aveva informato i cittadini che il bonus di seicento euro sarebbe stato ripartito in base all’ordine cronologico di presentazione della domanda. Il presidente dell’istituto previdenziale Tridico ha poi smentito la direttiva, assicurando «nessun click day» e che la finestra per presentare la richiesta si sarebbe protratta per venti giorni.
Le smentite della precedente direttiva a poco sono servite per prevenire l’assalto di domande da parte di patronati, consulenti e singoli cittadini. Dall’una di notte sono state inviate una media di cento richieste al secondo intasando il traffico del sito, che verso le 8.30 ha smesso di essere raggiungibile ai più. In homepage era leggibile la scritta: «Al fine di consentire una migliore e più efficace canalizzazione delle richieste di servizio, il sito è temporaneamente non disponibile. Si assicura che tutti gli aventi diritto potranno utilmente presentare la domanda per l’ottenimento delle prestazioni». Poche ore dopo, invece, chi riusciva ad accedere segnalava di essere all’interno di profili appartenenti ad altri cittadini che avevano presentato la domanda di sussidio.
Conte e Tridico hanno subito parlato di non meglio precisati attacchi hacker in corso da diversi giorni. La vicepresidente dell’Inps Luisa Gnecchi ha assicurato «che il guasto sarebbe durato solo cinque minuti». Informazioni contrastanti tra fonti molti vicine fra loro che andranno chiarite in questi giorni per delineare le responsabilità del disastro. Un disastro quantomeno informatico e d’immagine, se non legale per un’inedita violazione della privacy in questa forma da parte di un ente statale.
Subito sono partite all’attacco le opposizioni, Fratelli d’Italia e soprattutto la Lega di Matteo Salvini, accusato subito di sciacallaggio e di «soffiare sul malcontento» dallo stesso primo ministro. Effettivamente il capo del Carroccio, o chi per lui, ha postato ossessivamente ben otto post su Facebook nel lasso di quattro ore durante il down del sito Inps.
Si tratta di un duro colpo d’immagine per il governo alla luce di un provvedimento già mal presentato e lacunoso
Sorvolando su uno degli otto post di Salvini, in cui paragonava la mancetta del governo giallo-rosso a fantomatici mezzi milioni di franchi offerti dalla Svizzera ai suoi cittadini, è comunque vero che con il bonus seicento euro di Cura-Italia il governo Conte è molto lontano rispetto alle misure prese dagli altri Stati europei. La Svezia ha garantito di pagare ai lavoratori inattivi il 90% del loro reddito finché l’emergenza non sarà finita. La Francia offre sussidi parziali di disoccupazione pari all’84% del reddito dei lavoratori. Il Regno Unito e la Norvegia garantiscono l’80%. Snocciolando questi dati il giornalista canadese Gwynne Dyer parla addirittura di inaugurazione di una pionieristica era del reddito di base. E alla luce del decreto italiano, se non di mancetta si può comunque parlare di un provvedimento che potrà sortire scarsi effetti (soprattutto se non implementato).
E sono tantissime le categorie ugualmente meritevoli di tutela ma escluse da Cura-Italia. Sono persone costrette a lavorare in nero o con contratti a chiamata, autonomi che guadagnano troppo poco per permettersi una partita Iva, colf, badanti. Ma anche lavoratori intermittenti del terzo settore, educatori e operatori sociali. Anche chi è incluso nel decreto, ad esempio i lavoratori stagionali e turistici, ha poco da sorridere. Centotré milioni di risorse totali per un settore che vale circa il 6% del Pil italiano difficilmente riusciranno a sortire effetti macroeconomici anche di breve periodo in vista della grande recessione che ci aspetta una volta superato il picco dei contagi.
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E bisogna potenziare e avere il coraggio di portare avanti misure più forti. C’è chi già parla di reddito di quarantena. Come insegna il caso di Hong Kong – alle prese con la seconda quarantena dopo l’uscita dal primo lockdown – dobbiamo cominciare a pensare a decisioni di più lungo periodo rispetto al Cura-Italia. E soprattutto, è un dovere non ripetere scene come quelle odierne, quando la confusione e la disperazione di milioni di cittadini hanno provocato una triste quanto surreale rievocazione digitale dell’assalto ai forni descritto da Manzoni nella Milano del Seicento.