Lo Stato Islamico in Asia centrale
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L’unione fa la forza, recita il proverbio. Se l’unione è poco coesa, difficilmente arriva a portare a termine il compito. Il Wilayat del Khorasan in un primo momento aveva subito notevoli perdite imputabili all’alleanza tra il governo di Kabul e i talebani. L’innalzarsi della conflittualità tre le due parti nel corso dell’ultimo anno, tuttavia, ha immediatamente offerto nuovi spiragli allo Stato Islamico, che è riuscito a rivendicare diverse regioni del Paese dalle quali nascono opportunità di destabilizzazione dell’intera area, stavolta non attraverso la frontiera porosa con il Pakistan ma verso nord, in Tajikistan, Uzbekistan e Kazakistan.
L’estremismo islamico in Asia centrale
Negli ultimi anni vi sono stati diversi attacchi in Asia centrale (per lo più passati sotto traccia sui media nazionali italiani) rivendicati dallo Stato Islamico, l’ultimo a un posto di blocco tra Tajikistan e Uzbekistan nelle prime ore del 6 novembre. L’attacco, condotto con l’ausilio di bombe artigianali e armi da fuoco, ha lasciato sul terreno diciassette morti tra le forze di sicurezza e quindici tra gli estremisti. L’agenzia giornalistica statale tagica Khovar ha affermato che gli attentatori hanno attraversato il confine con l’Afghanistan tre giorni prima dell’attacco.
L’uomo notevole dello Stato Islamico in Asia centrale (e in particolare in Tajikistan) è Gulmurud Khalimov. Questi segue un profilo abbastanza comune: un passato nelle forze statali (nel suo caso capo delle forze speciali della polizia), interrotto bruscamente nel 2015 quando è avvenuta la defezione a beneficio dell’ISIS. Dopo un periodo in Siria è tornato in patria quando il Wilayat dell’Al Shams ha iniziato a perdere terreno. Nei suoi video guarda oltre il Tagikistan: non si rivolge solo ai sostenitori presenti nel resto delle repubbliche dell’Asia centrale, ma anche ai lavoratori immigrati in Russia, nominandoli esplicitamente.
Anche Khalimov, come altri estremisti prima di lui, fa leva sui social network per reclutare individui che si trovano in condizioni di marginalizzazione politica, economica e sociale. Secondo le stime ufficiali trecento cazachi, trecentocinquanta tagichi e trecentottanta chirghisi sono andati in Siria negli ultimi anni per combattere nelle fila di formazioni estremiste, più o meno equamente divisi tra Al Nusra e Stato Islamico. Il totale per tutto il centro Asia ammonta a oltre quattromila effettivi. Il ritorno in patria è sempre foriero di problemi e pericoli, poiché dalla Siria i combattenti tendono a riportare non solo problemi a livello psicologico (disturbo da stress post-traumatico) ma anche un’ideologia e una visione del mondo spesso non compatibile con il Paese di destinazione, a prescindere dal sistema di governo democratico o dittatoriale.
Il campanile al centro del villaggio
Nel contesto internazionale i Paesi dell’Asia centrale rivestono un peso particolare grazie alle risorse naturali (prevalentemente gas e altri idrocarburi). Un’esplosione dell’instabilità in questi Stati significherebbe un notevole problema di approvvigionamento di gas per l’Europa. L’area confina con Russia e Cina, due Paesi che stanno affrontando il problema dell’estremismo islamico; l’ultimo con lo Xinjang, dove Pechino sta applicando il pugno di ferro e istituendo una situazione dove (a quanto pare) i diritti basilari sono quotidianamente ignorati. In Russia i rischi sono legati all’esplosione di una guerra civile nell’area del Caucaso (anch’essa notevole produttrice di risorse energetiche), dopo che Mosca ne ha già affrontate due negli ultimi trent’anni sempre nella medesima zona. L’intervento russo in Siria ha come scopo anche il raccogliere informazioni sui propri concittadini presenti in loco per poterne meglio controllare i movimenti al momento del loro rimpatrio.
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Come predetto, la fine dello Stato Islamico in Siria avrebbe riportato in patria centinaia da combattenti che in Siria hanno acquisito, oltre a un’ideologia non compatibile con il Paese di appartenenza, anche competenze di combattimento militare, il che li rende una minaccia. Per evitare la creazione di situazioni esplosive è cruciale preservare un flusso di informazioni ininterrotto dalla Siria ai Paesi d’origine di questi militanti, ma anche e soprattutto implementare politiche sociali inclusive che evitino la marginalizzazione di interi gruppi sociali.
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