Quid pro quo. L’Ucraina e l’impeachment di Trump
Nella giornata di martedì 24 settembre la speaker della Camera dei Rappresentanti statunitense Nancy Pelosi ha avviato la procedura di impeachment per il presidente Donald Trump. La notizia ha suscitato perplessità in vari ambienti legati ai Democratici e sdegno in quelli repubblicani. Le reazioni sono motivate dall’esito delle inchieste precedenti, risoltesi in un nulla di fatto o che comunque non hanno avuto modo di procedere. Questa volta l’oggetto delle attenzioni degli inquirenti è una dichiarazione rilasciata da un non meglio precisato informatore vicino alle fonti diplomatiche statunitensi, secondo il quale la Casa Bianca avrebbe cercato di usare gli aiuti militari all’Ucraina come pegno di scambio a fronte di un’inchiesta su uno dei candidati di punta del Partito Democratico, ovvero l’ex vicepresidente Joe Biden.
Hunter Biden e Burisma
Facendo un passo indietro, gli Stati Uniti (così come tutta la NATO) offrono regolarmente aiuti militari all’Ucraina dal 2014, anno d’inizio della crisi scoppiata nella parte orientale della Russia che coinvolge, oltre al governo di Kiev, i separatisti delle repubbliche del Donbass e la Russia che li supporta più o meno direttamente. Nello stesso anno il figlio di Biden, Hunter, entrò a far parte del consiglio di amministrazione di Burisma, al tempo la più grande compagnia privata di estrazione di gas in Ucraina. L’azienda era sotto inchiesta dal 2012 per sospetto riciclaggio di denaro sporco, evasione fiscale e corruzione.
Nel 2015 entrò in gioco come nuovo procuratore generale Viktor Shokin. Le investigazioni su Burisma giunsero a un punto morto, tanto che la stessa amministrazione Obama ai tempi considerò di lanciare una propria inchiesta sull’azienda ucraina, in quanto alcune questioni legate al riciclaggio di denaro andavano a interessare la giurisdizione degli Stati Uniti. L’anno seguente lo stesso vicepresidente Biden chiese il rimpiazzo di Shokin in quanto questa inchiesta, così come altre, era rimasta sostanzialmente bloccata da quasi due anni. Per calcare la mano sul governo ucraino venne usato un prestito da un miliardo di dollari che, in caso di mancata rimozione di Shokin, sarebbe stato trattenuto.
Dopo il licenziamento Shokin attribuì la sua cacciata all’inchiesta su Burisma, in quanto azienda legata a Hunter Biden, ma questa teoria non sta in piedi se si considera che i fatti in esame sono del 2012 (quindi precedenti all’ingresso del figlio dell’ex vicepresidente in azienda) e che al tempo della sua rimozione da parte del Parlamento di Kiev l’inchiesta era sostanzialmente dormiente. Il successore di Shokin, Yuri Lutsenko, portò a termine l’indagine senza trovare prove a sostegno delle accuse: segnalò tuttavia di aver girato i documenti relativi a Hunter Biden ai propri colleghi americani per controllare che le posizioni pendenti col fisco fossero state sanate in modo adeguato.
Gli Stati Uniti hanno cercato di chiarire la posizione della Burisma per diverso tempo anche in relazione ai legami che quest’azienda aveva con Washington, senza trovare alcunché di strano. Nel corso di quest’anno, tuttavia, l’Ucraina ha riaperto il fascicolo. Lo scandalo delle intercettazioni di Trump si inserisce appunto qui, con il braccio destro e consulente legale Rudy Giuliani (ex sindaco di New York) che avrebbe a più riprese pressato il neo presidente ucraino Zelensky affinché questo disponesse ulteriori investigazioni nei confronti dell’azienda.
L’informatore
Pochi mesi dopo, precisamente nell’agosto di quest’anno, un informatore espose un complaint (una denuncia ufficiale indirizzata agli affari interni per la revisione e l’individuazione di possibili abusi di potere o altre violazioni della legge) riguardante alcune comunicazioni tra Trump e Zelensky, in cui il presidente statunitense applicava pressioni sul suo omologo ucraino usando come pedina di scambio le forniture militari a fronte, come detto, di un’investigazione sul figlio di Biden e sui legami con la Burisma. L’identità dell’informatore è ancora sconosciuta, ma costui ha già fatto sapere a mezzo del proprio legale di esser disposto a comparire a testimoniare di fronte al Congresso.
La denuncia di quello che più tardi si scoprirà essere un agente CIA riguarda anche i tentativi della Casa Bianca di insabbiare la questione: le trascrizioni delle telefonate vennero infatti inserite in un server destinato a dossier classificati con il massimo livello di segretezza. Qualche giorno più tardi si è scoperto anche che altre conversazioni con i leader di Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo furono destinate a quello stesso server. Sei diverse commissioni della Camera stanno esaminando le prove ora in mano agli inquirenti per decidere della sorte della procedura di impeachment. In caso di esito positivo dell’inchiesta, si riscontrerebbe l’abuso dei poteri derivanti dalla carica che Trump sta occupando per fini meramente elettorali e personali.
L’impeachment
La procedura di impeachment federale prevede l’apertura, da parte della Camera dei Rappresentanti, di un’accusa formale verso il Presidente. Nel caso in cui l’esame delle accuse passi il voto dei deputati, la questione passa poi al Senato dove le accuse vengono valutate e le prove trovate in sede di accusa alla Camera vengono esaminate. Dopo la disamina, se il presidente è trovato colpevole da una maggioranza superiore ai due terzi dei senatori, allora egli viene rimosso dal proprio ufficio e dalla propria carica. La procedura non è mai arrivata fino in fondo, sebbene alle dimissioni di Nixon durante lo scandalo Watergate fosse già in stato avanzato, con il Chief of Justice che aveva già esposto le proprie istanze al Senato. Le sue dimissioni portarono alla Casa Bianca Gerald Ford invece del vicepresidente Spyro Agnew, che Nixon aveva già dato in pasto agli investigatori e alla stampa nella speranza di evitare accuse peggiori.
Questo tentativo di impeachment ha una probabilità di riuscita piuttosto bassa, considerando che se i deputati democratici hanno una maggioranza piuttosto sicura, al Senato i repubblicani hanno i numeri dalla loro. Un discorso che diventa ancora più difficile se si considera che è al Senato che vengono analizzate le prove, che probabilmente sembrano essere proprio il punto più debole dell’accusa: la fonte sembra piuttosto insicura (un agente anonimo che propone informazioni di seconda mano) e le trascrizioni rimangono piuttosto sul vago, sebbene vi siano riferimenti diretti sia all’investigazione che agli aiuti militari. Il convitato (al momento) di pietra è il leader della maggioranza al Senato, il senatore del Kentucky Mitch McConnell. La sua direzione sarà cruciale per Trump in caso di approdo dell’impeachment al Senato e probabilmente si troverà a dover fare leva sulle elezioni del prossimo anno, quando i kentuckyani saranno chiamati a rinnovare o meno McConnell.