Noa Pothoven, vincere o imparare. A lasciarsi andare
Vincere o imparare è l’unica cosa di te che resta. Un libro di successo in cui decidi di parlare degli abusi che hai subito: non una traccia palpabile, non un dettaglio, un indizio concreto sui diversi episodi di violenza sessuale che ti hanno portato a soffrire di una grave forma di disturbo da stress post-traumatico. Tra le pagine, solo la rassegnazione, solo quello che resta: la vergogna e il dolore nel sentirsi costretta a continuare a stare al mondo dopo simili eventi. «Respiro, ma non vivo più», dicevi. Un guscio vuoto capace di mangiare e far circolare aria nei polmoni e niente altro.
Pensa, hai creato scalpore e dibattito in Italia, una nazione e una cultura profondamente lontane dalla tua, perché un manipolo di giornalisti delle principali testate italiane ha deciso di riproporre, da una notizia dell’inaffidabile Daily Mail, la tua storia, facendola passare come un controverso caso di eutanasia legale, laddove nel tuo paese la vicenda ha occupato un trafiletto sui comuni quotidiani. Ci sono voluti Marco Cappato e i vari siti di debunking nostrani per far notare come tu te ne sia voluta andare e basta. Senza mai ottenere la fine che avevi anche ricercato, ma sopratutto senza mai definire “eutanasia” il percorso cui ti stavi volontariamente sottoponendo.
Avevi provato a richiedere l’eutanasia legale, recandoti a sedici anni, all’insaputa dei tuoi genitori, nella clinica Levenseind all’Aia, ricevendo un chiaro «no» come risposta. La procedura per il suicidio assistito in Olanda è infatti chiara e disponibile persino per minorenni da dodici a sedici anni (in tal caso con l’autorizzazione dei genitori), ma molto complessa, e richiede attenta e concorde valutazione da parte di due medici indipendenti. Da linee guida, inoltre, è il caso di attendere la completa maturazione cerebrale dell’individuo prima di valutare l’entità della patologia psichica, persino in un sistema, quello olandese, dove la libertà e il rispetto della persona vengono prima di qualsiasi bene collettivo (la definizione italiana di Salute si rispecchia invece in quest’ultimo concetto) e dove non esistono Trattamenti Sanitari Obbligatori.
Nessun TSO in Olanda: ti sei quindi lasciata andare morendo di fame e di sete in una domenica pomeriggio dopo un lungo digiuno. Ti sei spenta in un modo devastante e ostinato, nella rassegnazione persino della tua famiglia, e con una modalità che sarebbe decisamente più corretto chiamare “rifiuto delle cure”, che “eutanasia” o peggio, con quel vagamente nazista e tanto abusato termine che è “dolce morte”. Perché nella morte non c’è niente di dolce neanche quando è ricercata a ogni costo.
La depressione non va mai considerata una malattia terminale. La depressione si combatte con l’aiuto del personale medico e dei familiari, di depressione si guarisce, ma si può anche morire, giorno dopo giorno o in una notte sul cavalcavia o in una vasca da bagno. La malattia psichica è per il paziente una dimensione di vita a sé stante, di difficile valutazione persino per un professionista, proprio perché intima e apparentemente scevra dalle regole che governano la quantificazione del dolore fisico. E una vita, la tua, fatta di tentativi di suicidio, cicatrici, ricoveri coatti, nutrizione forzata, coma farmacologico, psicoterapia, farmacoterapia, persino terapia elettroconvulsivante (o elettroshock, per noi italiani abituati al peso traumatico di ogni singola parola), di trattamenti incapaci di frenare questa patologia, non so più quanto possa essere considerata tale.
Intanto, vari personaggi nostrani che cavalcano l’onda e la pancia delle masse tra ironia, timore di Dio e cattivissimo gusto hanno colto l’occasione per esprimere la loro opinione non richiesta sulla tua scelta, eliminando completamente dal discorso quella sofferenza intima e personale a cui un individuo affetto da depressione è sottoposto. Non pensiamoci più di tanto, non è il caso, tanto è solo l’ ennesima crociata quotidiana per guadagnare quello 0.2% in più sui sondaggi.
Penso solamente che avresti potuto persino invidiarli, Noa. Invidiarli per la loro ignoranza, per l’incapacità più totale di empatizzare e, forse, di essere depressi, perché probabilmente troppo stupidi e retrogradi per comprendere cosa significhi la sofferenza vera e l’importanza, in casi come questo, di un dignitoso silenzio.