Fenomenologia di Riccanza – seconda parte
Parte III – Voglio il burqa di Gucci, burqa di Gucci
Nell’espansione urbana che ha avuto nel corso dei secoli, Genova si è trovata a inglobare al suo interno quello che un tempo era il luogo di villeggiatura di campagna della sua nobiltà, circondando le ville di case e palazzi del secondo Novecento. Sono facilmente riconoscibili in mezzo agli altri condomini, perché è rimasto qualche pezzetto dei parchi che un tempo avevano. Molte di queste sono ancora abitate dai figli dei figli dei figli degli abitanti originari. L’unica differenza da allora, la parabola discendente di potere economico e politico che la città esercitava e ora esercita. Così se i loro avi hanno costruito la villa, i discendenti si trovano a fare il possibile per tenerla in piedi; pagare il giardiniere; pagare l’IMU non certo irrisoria per quel tipo di immobile, e così via. L’idea che qualcuno si svegli tutte le mattine e lavori fino a sera per cercare disperatamente di preservare una frazione di quello che il suo bisnonno poteva fare è un’immagine che trovo di una tristezza infinita. Sono come dei fantasmi di un castello medievale abbandonato, condannati per l’eternità a infestare le sale dove un tempo si organizzavano balli e banchetti, o come un vecchio cane da guardia che protegge inefficacemente il suo territorio, senza sapere nemmeno bene perché. Sono consapevole che forse non è semplicissimo empatizzare con chi comunque vive in una villa, e di fatto non sto nemmeno chiedendo di farlo. Il punto di questa svolta era introdurre che rivedo molto dello stesso comportamento nei partecipanti di Riccanza.
Una delle frasi più ricorrenti, quando Farid o Ferrari si recano a comprare qualcosa, è “questo è un pezzo unico; ce l’hai solo tu”[1]. Non riesco a ricordare un solo esempio in cui la frase non sia riuscita a mandare in un brodo di giuggiole l’acquirente. C’è manifesta una soddisfazione quasi patologica nell’idea di poter acquistare qualcosa che distingua, che identifichi; che dia una personalità. Tornando all’analogia delle ville genovesi, quello che si sta preservando, qua, è l’idea della storia. Intendendo con storia quella personale. La si può chiamare carriera, o percorso, o in generale quella serie di sforzi che prendendoci da un punto a, nella nostra vita, ci hanno portato anni dopo a raggiungere il punto b. In una parola: gli obbiettivi.
Cosa si regala a chi ha già tutto? È un adagio senza una risposta precisa[2], ma evidenzia il problema sottostante: la mancanza di obiettivi. Se per certi versi il doverseli porre autonomamente nella vita è un problema universale, affrontato da tutti, è significativamente diversa la situazione in cui questi obbiettivi sono completamente arbitrari, e non ci sono ripercussioni negative di alcun tipo nel fallire il raggiungerli. Per chi non sogna l’immortalità nell’arte, o di mettersi alla guida di una nazione, o di vincere una guerra, quasi tutti i propri sforzi, durante tutti i giorni, sono indirizzati al raggiungere quel punto finale, che è precisamente il punto di partenza da cui i partecipanti di Riccanza cominciano. Nell’universo descritto dal programma, i ragazzi ne sono acutamente – seppur subconsciamente – coscienti. In questo stato di arrivo, di vittoria, di conclusione, la realtà si disfa della propria prospettiva storica: scompare il passato, non avendo loro partecipato alla fatica per costruire questo presente; il futuro è sicuro e non può che essere semplicemente una continuazione del presente, e quest’ultimo si trasforma in una sorta di iper-presente, la cui esistenza è in un qualche impreciso senso metafisico, più che affermata. Questo crea una necessità impellente, disperata, quasi questione di vita o di morte, di dare una forma di storicità alle proprie azioni. L’acquisto di un pezzo unico è un evento. È un gesto. Più che un gesto, è un fatto. Excalibur è un pezzo unico. La Divina Commedia è un pezzo unico. L’atomica è un pezzo unico[3]. Nel momento in cui Elettra entra in possesso di un pezzo unico, è successo qualcosa. Ed essendo successo qualcosa, c’è un pre-succedesse-quella-cosa, e un post-succedesse-quella-cosa. La vita è di nuovo posta, seppur brevemente, nell’ottica di lotta per il raggiungimento di un obbiettivo. Prima non avevo un pezzo unico, e grazie alle mie azioni, sono arrivato a pormi nella condizione di essere entrato in possesso di un pezzo unico[4]. Non cambierebbe nulla se invece che comprarli li forgiassero, o li scrivessero, o li componessero. Ma questa soddisfazione è temporanea, e breve, come non può che essere una soddisfazione che si è già provata numerosissime volte. E soprattutto, è arrivata senza opposizioni. Quasi ogni storia archetipale vuole un antagonista di qualche genere. E non c’è storia più archetipale della fatica e della lotta per ottenere qualcosa. Non è un caso che nei sopracitati stacchi dalla narrazione, i partecipanti in qualche modo anticipino la reazione disgustata del pubblico al loro spreco di denaro. Stanno creando un’opposizione. Che forse in quel caso esiste realmente, e non servirebbe inventare, ma che esiste in periferia, lontana dai locali e ristoranti che frequentano, ed è quindi come non esistesse. Ma se ci si può illudere di avere un nemico, non si può illudersi di aver faticato quando non lo si è fatto.
Così che la realizzazione che non solo il pezzo unico non ci è costato un gran sacrificio economico – anzi – ma che per di più è solo l’ennesimo paio di scarpe, o un’altra borsa, e che a nessuno realmente frega niente che l’abbiamo comprata o meno, perché i loro conoscenti ne hanno altrettante se non di più, spinge i partecipanti di Riccanza a dover ricominciare il ciclo da capo.
È un’esistenza irrequieta, privata dalla calma che il sapere di stare facendo piccoli progressi verso qualcosa, giorno dopo giorno, dona. È un esistenza in cui il processo di porsi un obbiettivo e raggiungerlo collassa su sé stesso, riducendosi a un unico istante, in cui nasce, si consuma e muore. Lungi dal dire che sia un’esistenza grama, o che, di nuovo, bisognerebbe provare empatia o pietà per loro. Quello che viene mostrato è il desolante, grottesco, immobile protrarsi di un romanzo o di un film in cui sono già passati la fine o i titoli di coda. Come sarebbe la sequenza che chiude il Laureato, se la camera non tagliasse mai e il viaggio in corriera durasse per sempre.
Una delle prime domande che ho fatto alla persona[5] che aveva visto con me la serie, è stata «tu cosa faresti se fossi al loro posto?». Il motivo della domanda era che la risposta che mi ero dato immediatamente, essendomela chiesta in primis, era nata talmente in fretta e talmente limpidamente da non poter essere quella corretta. Questo perché, banalmente, mi ero messo a immaginare come avrei potuto usare i soldi per arrivare dove già voglio arrivare. Se uno scrittore non può comprarsi il talento, può invece indubbiamente comprarsi la fama. Mentre fantasticavo su come ci sarebbero stati manifesti ovunque che annunciavano l’uscita del mio prossimo romanzo (stampato dalla mia casa editrice) come la seconda venuta del Messia, e interviste in televisione, e recensioni su tutti i giornali e di tutti gli youtuber, stava iniziando a infiltrarsi nel retro della mente il senso di sbagliato. Che ci fosse qualcosa di cui non avevo chiaramente tenuto conto.
Avrei voluto parlare dei partecipanti individuali del programma esclusivamente nella quarta parte, ma mi vedo costretto a fare qui un’eccezione[6]: Asya Rotella. Asya Rotella, figlia di Mimmo Rotella, artista del Nouveau Réalisme e della pop art internazionale, esposto nei principali musei del mondo, inventore della tecnica del decollage, eccetera eccetera, non c’è bisogno che vi riassuma qua la sua pagina di Wikipedia. Difficile immaginare una definizione più letterale di figlia d’arte. Asya avrebbe dovuto partecipare alla seconda e terza stagione di Riccanza, non potendo nel primo caso perché le riprese avrebbero intralciato la sua scuola di recitazione a New York e nel secondo per (a suo dire) incomprensioni con la produzione del programma. Quello che è apparso in televisione è stato unicamente un brevissimo filmato di presentazione del partecipante, nello speciale dedicato ai casting. Alla domanda «cosa significa per te “riccanza”?» risponde che è la tranquillità e la serenità di potersi concentrare sulle proprie passioni senza essere oberati dal dover pensare a come mettere il cibo in tavola. E lo shopping[7]. Risate sintetiche a parte, nei suoi stessi vlog del canale YouTube che ha aperto recentemente parla di come avrebbe voluto partecipare per mostrare il lato artistico, intellettuale di Riccanza – che non tutto è aperitivi e macchine di lusso. Benissimo. Senonché nella piattaforma che le permette di farlo[8] e in assoluta e totale libertà creativa, di questa parte non c’è traccia. Al momento di scrivere queste righe il suo canale conta esattamente 80 video. Esclusi i due in cui spiega perché non ha partecipato a Riccanza, e due specie di corti in cui recita, e sulla cui qualità sarebbe troppo elitista da parte mia esprimermi, rimandando il giudizio al pubblico, fra i rimanenti 76 si contano titoli come[9]: IL POSTO PIÙ INSTAGRAMMABILE A NY; COME APRIRE UN AVOCADO CON UN APRI AVOCADO; COME FANNO SHOPPING LE RAGAZZE A NEW YORK; COSA FANNO LE RAGAZZE A NEW YORK; COSA C’È DENTRO IL FREEZER DI UN VEGANO A NEW YORK (cibo vegano?); PERCHÉ NON SONO STATA AMMESSA ALLA MATURITÀ[10]; COME HO SUPERATO IL MIO COMPLESSO DI INFERIORITÀ[11]; WHEN YOUR BOYFRIEND SENDS EMOJIS TO OTHER GIRLS; GIANLUCA VACCHI ERA IL MIO VICINO DI CASA.
Quello che credo di aver dimostrato, al di là dell’aver fatto un minimo di quella facile ironia che probabilmente ci si aspettava da un testo su Riccanza, è che la divorante passione per l’arte non tiene sveglia Asya la notte. I vlog caricati non ne parlano, se non in vaghissimi accenni. Non parla di testi che ha visto recitare, o di come sia andare a scuola di recitazione, o di qualunque altro argomento più tecnico che ragionevolmente dovrebbe interessarle. E se si potrebbe obiettare che questo non ci dice niente della sua reale passione per la materia, possiamo limitarci quantomeno a riconoscere che la sua motivazione per la volontà di partecipare al programma – fare divulgazione – era quantomeno non l’unica. Dotata della possibilità di divulgare, appunto, intraprende una strada diversa con i suoi video. E non si pensi che si possa trattare semplicemente di essere una amateur del medium, o di stare semplicemente sperimentando intanto che capisce cosa vuole realmente farne del canale, perché i video sono ben studiati per favorirsi l’algoritmo di YouTube e scalare le classifiche, come la crescita che ha avuto sulla piattaforma dimostra. Della lunghezza giusta per apparire nelle raccomandazioni, con numerosi call to action, con il soprannome per i follower d’obbligo; con un tipico stile basato su precisi effetti sonori, precise musiche di sottofondo, precisa ironia, precise luci, precise strutture e transizioni. Capita anche relativamente spesso che ci scherzi sopra, anticipando che la cosa che sta per dire, in quel video, la sta per dire per farsi premiare dall’algoritmo. Se non posso confermare che abbia studiato la questione in qualche corso di new media, Asya sembra quantomeno aver fatto tutta la ricerca necessaria per intraprendere l’attività come carriera. Di nuovo, mi sento di dover specificare che questa non vuole essere né una critica della persona o del personaggio, né un tentativo di stabilire una superiorità artistica fra la figlia di uno dei principali artisti del Novecento e chi scrive. Quello che l’esempio di Asya aiuta a comprendere, è come anche modificando radicalmente il contesto, rendendolo il più prolifico immaginabile per generare un individuo radicalmente diverso da quelli mostrati su Riccanza, si viene comunque a creare un altro di loro.
Non credo di essere né più intelligente né più talentuoso di Asya, e di conseguenza la mia pretesa che se solo fossi al suo posto sarei un grande Mecenate e artista, dallo sforzo alfieriano nello studio e nel perorare la causa, è semplicemente ignorante. Nel senso puro del termine: c’è qualcosa che non so. Ma forse posso capirlo.
Parte IV – Non al denaro non all’amore né al cielo
C’è un celebre aneddoto nella musica classica, secondo il quale il primo violino dell’orchestra che aveva appena accompagnato Jascha Heifetz (all’epoca un bambino di otto anni) nel suo debutto da solista, avrebbe commentato la disparità fra il suo talento e quello del ragazzino con un laconico «e adesso possiamo anche spaccarci i nostri violini sulle nostre ginocchia». L’universo di Riccanza è per tanti versi un universo di vicinanza con il genio. Genio imprenditoriale, nelle forme dei membri della propria famiglia e dei loro amici; genio creativo, costellandosi di infiniti designer e artisti di successo; genio sportivo, avendo possibilità di conoscere gli atleti delle principali squadre, e via dicendo. In alcuni isolati casi questo rapporto è serafico, privo della tensione che indirizzerebbe il concorrente verso il genio e instillerebbe, quindi, il senso di invidia per le capacità e la cultura di cui è privo. Ma generalmente, e con precisione quasi matematica, è l’esatto opposto. Circondati da creativi, da creatori – da persone, cioè, in qualche modo in grado di plasmare sezioni della realtà, la reazione è quella di chiunque abbia bisogno di non sentirsi inferiore: l’imitazione. Al termine della terza stagione, il numero di concorrenti che non ha dato vita a una propria linea di abbigliamento rimane decisamente minore di quello di chi l’ha fatto. E c’è una certa insistenza nel mettere in luce l’intero processo decisionale, con numerose scene dedicate al protagonista circondato da una serie di figure che gli mostrano alternative a gruppetti di cinque, da cui poi scegliere. Quale di questi tre design preferisci per la fantasia delle polo? La gonna la facciamo un filo più lunga o un filo più corta? Oxford o francesine?
C’è un’ironia, nel fatto che questo processo decisionale stia a quello creativo come lo scegliere un percorso in un libro a scelte multiple stia al scriverlo, che mi rifiuto di pensare non colgano. Perlomeno subconsciamente. E quanto è peggio, poi, è che di tutti questi vestiti, queste linee di merchandising di vario tipo, non rimane quasi nulla. Venderanno forse un po’ – forse anche tanto, per la media degli esordienti – ma non vanno mai a intaccare nessuno dei punti di riferimento culturali che hanno. Ironicamente, di nuovo, fra tutti i concorrenti forse quella che ha avuto più successo nel proprio campo (volendo giudicare il successo esclusivamente in termini di popolarità raggiunta) è stata Elettra Lamborghini con il proprio singolo; ironicamente, dico, perché sembra essere una delle meno afflitte dalla necessità di non mostrarsi meno valida delle persone da cui solitamente fa acquisti. Se l’obbiettivo sotteso era, quindi, azzerare la distanza fra sé stessi e il pantheon a cui vivono vicino, quel pantheon rimane saldamente al suo posto, e i suoi cancelli saldamente chiusi. Chiuso ma distante, e la sua presenza è impossibile da ignorare.
Se provo a immaginare cosa deve significare avere fra gli amici di famiglia Pirandello, o avere in casa il pianoforte di Verdi, o, facendo un altro esempio casuale, avere come padre Mimmo Rotella, comincio a capire perché i partecipanti di Riccanza sono come sono. La vicinanza del genio è una montagna scura che si mostra impossibilmente imponente e pericolosa, e che contemporaneamente chiede il coraggio di farsi scavalcare. E anche ammettendo un carattere non tendente alla autocritica e l’auto-boicottaggio – ammettendo anche che avere in casa propria Eco per il caffè delle quattro ci spinga invece a credere che non c’è un abisso invisibile a separarci, quali sono le reazioni possibili? Da un lato lo stesso senso di presente perpetuo ci dice che non dobbiamo in qualche modo avvicinarci all’arte, o crearla, perché l’arte è già chiaramente lì, in carne e ossa e in abbondanza, che beve il caffè delle quattro seduta al tavolo di fronte a noi. È così vicina che possiamo toccarla, letteralmente. E in più è in qualche modo visibile come l’essere seduta lì, di fronte a noi, rappresenti il punto di arrivo per la persona che abbiamo di fronte. Se siamo noi la destinazione, come possiamo metterci in viaggio?
Poi il vortice del quotidiano, delle chiacchiere – come sta tuo marito? Ah il libro nuovo esce a settembre, congratulazioni – e frequentando esclusivamente chi ormai ce l’ha fatta, socialmente, chi si è già affermato, ci viene a mancare la prospettiva del percorso, dei mille rifiuti che la persona di fronte a noi ha ricevuto, per arrivare lì dov’è. Così l’arte – ma qualunque sforzo a dire il vero – si tramuta in uno stagno rigoglioso, straripante di ninfee di Monet, da cui per attingere basta chinarsi un poco e prendere a piene mani, quanto si vuole e ogni volta che si vuole. Tutte le porte sono aperte, come ricordano un paio di volte nella trasmissione gli stessi partecipanti. Lo sforzo si comprime, sparendo quasi del tutto, e così come in casa teniamo per mesi oggetti che basterebbero dieci minuti per buttare, l’idea che per compiere tutta la preparazione necessaria serva così poco tempo, così poca fatica, finisce per non farcela mai intraprendere. E se la glorificazione del genio, dell’artista, poteva fungere da motivazione per cercare di diventarlo noi stessi, quando l’artista, il genio, è seduto a chiacchierare del più e del meno di fronte a te, e ti parla con una certa riverenza servile, e non sembra né particolarmente più furbo o intelligente di te, dov’è questo premio invisibile alla fine dell’arcobaleno per cui iniziare a fare arte?
Riprendendo allora la domanda di un paio di paragrafi sopra, l’unica risposta possibile a «cosa faresti se fossi al loro posto?» mi sembra, semplicemente, le stesse identiche cose. C’è una sorta di condanna esistenziale nell’essere un concorrente di Riccanza – una forma opprimente di determinismo che ci garantisce che essendo noi il punto di arrivo, ed essendo tutti i punti di arrivo uguali, saremo necessariamente uguali fra noi. Che è inevitabile sviluppare complessi di inferiorità come ne ha Farid, in un ambiente in cui si viene costantemente giudicati per ogni minimo aspetto di sé; che è inevitabile la costante ricerca di qualcosa che ci caratterizzi attraverso gli oggetti, quando è l’unico modo non ostracizzante di sviluppare una personalità; che è anche normale, in una certa misura, il disprezzo del popolo, del volgo, dei poveri, quando sai che questo disprezzo – quando non è invidia, e a volte assieme – è uguale se non maggiore per te, dall’altra parte della barricata. Che è inevitabile perdere la determinazione e la voglia di impegnarsi e lavorare, lavorare tanto, nella consapevolezza che farai solo un millesimo di quello che ha fatto la tua famiglia, se proverai a distaccartene, o ti limiterai a espandere e portare avanti qualcosa che non è tuo e di cui non hai alcun merito, se proseguirai al suo interno. Che è inevitabile avere difficoltà a sviluppare una relazione sentimentale profonda e durevole quando metà delle persone che frequenti sono lacché e l’altra metà intollerabilmente egocentriche e vuote.
Che c’è un rovescio della medaglia nascosto e profondo nell’essere l’assoluto centro del tuo universo: forse Riccanza finisce, ma ti rimane te stesso.
Note
[1] Per la cronaca, per quanto i commessi dei loro negozi di fiducia sembrino essere in grado di intortarli infinitamente, facendoli uscire con dieci sacchetti quando il programma era di uscirne con uno – solo in questo momento ho realizzato come nell’utilizzare quell’espressione, al posto di “ce l’avresti solo tu”, diano già per scontato che l’oggetto verrà effettivamente comprato. Che poi di fatto è quello che alla fine succede.
[2] In realtà la risposta finisce per essere, al 90% dei casi, qualche cazzata da Tiger.
[3] Al punto che continuiamo a usare la forma al singolare, nonostante l’unico caso in cui sia stata usata ne sono state usate due.
[4] Non credo di sorprendere o stupire nessuno se faccio presente che grande parte del fascino del comprare un Rothko o un Hirst stia nell’essere la persona che possiede un Rothko o un Hirst.
[5] Che per pietà nei suoi confronti rimarrà qui anonima.
[6] Anche se la persona in questione non ha mai ufficialmente partecipato a una stagione del programma, fermandosi sempre alle selezioni, per cui tecnicamente non sto barando.
[7] Sto parafrasando e semplificando un po’ la risposta, più per amor di chiarezza che altro.
[8] YouTube, appunto.
[9] In ordine cronologico inverso: dal più recente al più vecchio.
[10] Questo video rientra nell’elenco unicamente per l’incredibile ironia di essere un monologo di una volta e mezzo/due la durata del suo video medio, su un suo palese complesso di inferiorità, subito dopo aver caricato il video in cui spiega come non abbia più complessi di inferiorità.
[11] Vedi nota 10.