Cristo si è fermato a Eboli: viaggio in una terra senza tempo
La stesura di Cristo si è fermato a Eboli – in cui, invece, non v’è nulla di borghese – inizia nel 1943, a sette anni di distanza da quell’esperienza che tanto aveva segnato lo scrittore torinese. Giulio Einaudi, editore e amico personale di Levi, pubblicherà l’opera nel 1945. Più di trent’anni dopo Francesco Rosi, regista tra i più illuminati del neorealismo italiano, ne curerà la trasposizione cinematografica, interpretata magistralmente da Gian Maria Volontè. C’è dunque un ampio scarto temporale tra l’esperienza narrata (1935-36) e il suo racconto (1943-44). Uno scarto di cui Levi dà subito conto nell’incipit dell’opera: «Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia». L’autore sembra quasi evocare una frattura irriducibile tra la «Storia» delle nazioni, delle battaglie, dei grandi uomini, degli eventi memorabili, e la «storia» degli ultimi, delle terre aride e dimenticate, di chi non ha nome, di chi fa parte di un mondo «negato alla Storia e allo Stato».
L’opera di Levi si regge su un meccanismo tanto semplice quanto originale: raccontare la storia di chi è senza Storia. In ciò consiste la sua «rivoluzione contadina», per usare una felice espressione di Calvino; e in tal senso è possibile ravvisare in Cristo si è fermato a Eboli tratti molto simili al verismo di Verga e De Roberto. La prosa di Levi è esasperatamente concreta: pietre battute dal sole, immense cave d’argilla di un bianco accecante, distese sconfinate di terra senz’alberi. Quello dei calanchi è un paesaggio brullo, desertico, spogliato dalla massiccia opera di disboscamento necessaria a fornire legno e carbone alle industriose regioni settentrionali. Le quali appartengono a un altro mondo, totalmente diverso da quello lucano, e comunque meridionale; le due realtà sono legate da un tratto di penna su un foglio bianco, da quell’Unità d’Italia che, settant’anni dopo il 1861, si ostina a esistere solo sulla carta.
Ogni pagina dell’opera di Levi sembra confermare, in effetti, la celebre dichiarazione del cancelliere von Metternich per cui «l’Italia è una mera espressione geografica». A conferma di ciò val bene ricordare, come nota lo storico inglese Mack Smith, che i ministri del Regno d’Italia si astennero sempre, finché possibile, dal recarsi personalmente nel meridione. Sin dall’Unità, e soprattutto in era fascista, la questione meridionale è stata oggetto di un ostinato negazionismo, che ha permeato di sé tutte le legislature del Regno – a dispetto degli sforzi dei meridionalisti come Fortunato, Amendola e Salvemini, non a caso convinti antifascisti – per iniziare ad acquisire dignità solo con l’avvento della Repubblica. E infatti, quando Carlo Levi arriva in Lucania – toponimo ripreso ufficialmente dal fascismo in luogo del più noto «Basilicata», tuttora in uso – la questione meridionale è ancora chiusa fuori dalle stanze del potere. Lo dimostrano le condizioni di vita della popolazione locale, che, all’epoca dei fatti, rasentano la barbarie: a Matera, oggi Capitale europea della cultura, le famiglie vivono ammassate con capre e maiali in grotte buie scavate tra i Sassi. Solo a partire dal 1948 la questione verrà portata in Parlamento, a opera di Togliatti prima e De Gasperi poi; il loro impegno condurrà alla ratifica della legge nazionale sullo sfollamento (1952) che disporrà lo sgombero dei Sassi e la costruzione di nuovi quartieri residenziali. Ma mentre Levi è al confino, e mentre il quadrilatero industriale di Milano, Torino e Genova spinge l’Italia verso il progresso, Matera è una stalla a cielo aperto.
«Noi non siamo cristiani, – essi dicono, – Cristo si è fermato a Eboli». È dunque questa un’umanità disumana, una congerie di bestie travestite da uomini; a sud di Eboli la civiltà non è mai arrivata, non è arrivata l’industria, il progresso, la politica. Si è rimasti cristallizzati in un tempo al di fuori dal tempo. Contadini e massaie tirano a campare, senz’altra pretesa che di arrivare a fine giornata; c’è «il grano da crescere, i campi da arare», per citare un verso di Luigi Tenco. Nessun margine per altri pensieri, meno che mai per la politica, che è una parola vuota, un’entità astratta, estranea al popolo e indifferente alle sue sventure. Levi non ne fa certo mistero: «per la gente di Lucania, Roma non è nulla: è la capitale dei signori, il centro di uno Stato straniero e malefico». Roma fa da contraltare all’America, terra di emigranti, da tutti intesa nella doppia veste di inferno e paradiso, luogo di fatica e di speranza; ma pur sempre qualcosa di concreto, un albero che dà frutto. Non una terra arida e desolata, com’è Roma in senso politico e com’è Aliano coi suoi calanchi.
Ma tra i vicoli dei villaggi lucani non c’è solo miseria. Ogni gesto, ogni rito, ha un sottotesto di magia e mistero, che rende il Sud «stregonesco» e sconosciuto. Le pagine in cui Levi dà conto di questa realtà sono forse tra le migliori dell’intero romanzo, perché è qui che lo scrittore torinese, già medico e pittore, si fa pure involontario etnologo. Il popolo lucano vive di ritualità sue proprie, e nutre convinzioni che oggi – ma già negli anni Trenta, e anzi sin dall’Illuminismo – non esiteremmo a definire antiscientifiche. Ma anche il razionalismo delle Accademie si è fermato a Eboli: qui ogni paese ha le sue streghe, donne capaci di oscuri sortilegi, di preparare misteriosi filtri per far innamorare, guarire o uccidere. Nessuno se ne meraviglia; anzi, è un fatto ovvio. Di fronte a una realtà tanto curiosa, che sarebbe fin troppo facile liquidare come «selvaggia» e arretrata, Levi ha il merito di non ergersi a giudice, ma di conservare lo sguardo partecipe e attento dell’acuto osservatore, che non teme di lasciarsi stupire. Ecco allora che il lettore trova facilmente, incastonate tra una pagina e l’altra come gemme preziose, piccole notazioni di antropologia culturale: riti e miti tipici del luogo, che raccontano la realtà locale più di ogni rapporto statistico – destinato a rimanere chiuso nel cassetto di qualche ministro – su tassi di analfabetismo e condizioni igienico-sanitarie del Sud. La narrazione di Levi è resa preziosa dal fatto di essere concreta, vissuta in prima persona, sia pure non in presa diretta, ma, come si è detto, in differita, sette anni dopo l’epoca dei fatti. In questo senso, Cristo si è fermato a Eboli infligge un colpo mortale a tutti gli «antropologi da tavolino», coloro che si occupano di studi demo-etno-antropologici lavorando su materiale di seconda mano, raccolto da altri, senza recarsi sul campo.
L’equilibrio tra narrazione e descrizione è, nell’opera di Levi, ben bilanciato; il racconto della vicenda è inframmezzato da excursus visivi, pieni di colori, estremamente vividi, che rendono giustizia agli ambienti e ai paesaggi locali. Altrettanto realista è il già citato film di Francesco Rosi (1979), vincitore di due David di Donatello e girato in Basilicata, nel piccolo villaggio di Craco – poi scelto da registi come i fratelli Taviani e, più recentemente, Mel Gibson – e nei comuni di Aliano e Pisticci. Cristo si è fermato a Eboli è dunque un romanzo «di cronaca», che permette di conoscere una realtà molto più vicina, e molto più sconosciuta, di quanto si possa pensare.