Il giorno della civetta: genesi del racconto di mafia
«Non c’è nulla che mi infastidisca quanto l’essere considerato un esperto di mafia o, come oggi si usa dire, un ‘mafiologo’. Sono semplicemente uno che è nato, è vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone. Sono un esperto di mafia così come lo sono in fatto di agricoltura, di emigrazione, di tradizioni popolari, di zolfara: a livello delle cose viste e sentite, delle cose vissute e in parte sofferte…».
Queste le parole con cui Sciascia, in un’intervista al Corriere della Sera del 19 settembre 1982, illustra il suo rapporto con la mafia. Dieci anni prima aveva affermato, in una nota introduttiva al suo racconto Il giorno della civetta – comparso nella collana «Letture per la scuola media», Einaudi (1972) – che la mafia era un vero e proprio «sistema» economico e di potere, capace di gestire gli interessi della classe borghese; e non in una situazione, egli specifica, di vuoto istituzionale, non «nel “vuoto” dello Stato, ma “dentro” lo Stato». Al giorno d’oggi, affermazioni di questo tenore possono suonare ovvie, già dette, complice la narrazione del fenomeno mafioso che ormai costituisce un genere editoriale a sé; ciò a partire, grosso modo, dagli ultimi dieci anni, quando Gomorra di Roberto Saviano (2006) ha fatto da apripista alla pubblicazione di saggi e inchieste sull’argomento.
Ma nel 1960, anno d’esordio del racconto, tutto questo era pura fantascienza. All’epoca, ricorda Sciascia nella già citata nota, «il Governo non solo si disinteressava del fenomeno della mafia, ma esplicitamente lo negava». Pubblicamente, certo; ché nelle sale del potere qualche timore in merito doveva pur esserci, se l’autore fu costretto, per sua stessa ammissione, a dedicare un anno intero a «cavare» dal suo racconto ogni possibile riferimento, esplicito o implicito, a persone esistenti e a fatti realmente accaduti. Ciò nonostante, Il giorno della civetta resta, come riporta la quarta di copertina dell’edizione Adelphi (2007), «il primo e il più grande tra i romanzi che raccontano la mafia».
Un titolo senza dubbio enigmatico. È l’autore stesso a spiegarne l’origine, in una lettera del 5 dicembre 1960 al poeta sloveno Ciril Zlobec: «Come la civetta è animale notturno, e diventa – dice Shakespeare – ‘oggetto di meraviglia se di giorno compare’, così la mafia va perdendo in Sicilia le sue caratteristiche notturne per comparire alla luce del giorno». Quasi vent’anni dopo, nell’intervista a Tom Baldwin del 20 maggio 1979, Sciascia rimarrà coerente con la sua posizione: «La civetta è un animale notturno; invece questa specie di società segreta che è la mafia, società diciamo notturna, in Sicilia agisce di giorno». C’è poi un’altra motivazione, di natura filologica ma soprattutto metaforica. L’epigrafe del romanzo, riprendendo il titolo, recita: «… come la civetta quando di giorno compare». È una citazione all’Enrico VI di Shakespeare, e in particolare alla scena in cui il duca di Somerset, udito il discorso con cui la regina Margherita incoraggia i suoi uomini a combattere, commenta: «E chi non vuole combattere per una tale speranza vada a casa e a letto e se si alza, sia oggetto di scherno e di meraviglia come la civetta quando di giorno compare». Un monito, si direbbe, rivolto ai codardi, ai pusillanimi che chinano il capo dinanzi al nemico da sconfiggere, piuttosto che affrontarlo a testa alta. Sciascia riprende la citazione shakespeariana in riferimento all’omertà dei cittadini siciliani rispetto al fenomeno mafioso; essa riecheggia, non a caso, anche nelle parole di Paolo Borsellino: «Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola».
Al di là del titolo, comunque, è la prosa di Sciascia nella sua interezza a essere enigmatica e sfuggevole. L’autore divide il racconto in diciassette sezioni non numerate, che paiono corrispondere ad altrettante sequenze di un film. L’opera, in effetti, ha ispirato un bel lungometraggio, diretto dal regista Damiano Damiani – coautore della sceneggiatura – e interpretato, tra gli altri, da Claudia Cardinale. Ogni sezione del racconto si apre in medias res, senza ricorrere a introduzioni di alcun tipo, né a presentazioni dei personaggi: sta all’accortezza del lettore distinguere una scena dall’altra, basandosi sui pochi elementi caratterizzanti le parti in scena e soprattutto sul cambio di ambientazione. L’azione segue infatti due direttrici parallele: l’una trova spazio in Sicilia, tra i paesi, mai citati per intero, di S. e B.; l’altra, invece, a Roma. È invece molteplice la ripartizione dei personaggi, divisi tra mafiosi, uomini del governo, carabinieri e gente di paese; non sempre, peraltro, è possibile tracciare distinzioni nette tra una categoria e l’altra. È proprio in questo ginepraio, infatti, che il capitano Bellodi, protagonista del racconto, cercherà di mettere le mani.
Bellodi, «emiliano di Parma» – come del resto Franco Nero, che ne è l’interprete nel film di Damiani – presta servizio in un paesello della Sicilia occidentale. Quando Salvatore Colasberna, piccolo imprenditore edile del luogo, è assassinato in una fredda alba d’inverno nella piazza del paese, Bellodi cerca di risalire, prima ancora che al colpevole, al movente del delitto. È convinto infatti che l’omicidio sia in qualche modo correlato a una spinosa questione: la serie di appalti truccati, concessi in modo truffaldino a chi ha saputo cercare protezione presso gli amici giusti. Pare infatti che il Colasberna fosse già stato minacciato dai signorotti del luogo, perché restio a porsi sotto la loro ala protettiva: «voleva vivere senza amici, ed eccolo lì», dirà un carabiniere di fronte al suo cadavere. Bellodi segue dunque la pista mafiosa, risalendo, di anello in anello, lungo la catena che lo porterà a Don Mariano Arena, che controlla i traffici e gli affari del luogo. Celeberrimo il dialogo tra Arena e Bellodi, in cui il mafioso divide l’umanità in cinque categorie: «uomini, mezz’uomini, ominicchi, piglianculo e quaqquaraquà», riconoscendo nel capitano Bellodi, secondo il suo codice d’onore, un vero uomo; perché conosce, e pratica, il rispetto per il prossimo.
L’inchiesta del capitano parmense segue, puntigliosa, il suo iter, architettando astuzie e tranelli per indurre i sospetti a confessare. E difatti confessano, accusandosi a vicenda pur di scagionare – almeno in parte – sé stessi; ciò nonostante, l’esito della vicenda sarà sconcertante, e spingerà il capitano a impegnarsi ancor di più in quella lotta alla mafia che ha ormai assunto la valenza di una questione personale: «“Mi ci romperò la testa”, disse a voce alta».
Da un lato, dunque, l’opera di Damiani, che impiega con maestria il mezzo filmico per narrare una storia degli anni Cinquanta, ma quanto mai attuale. Dall’altro, la prosa affascinante, scorrevole, a tratti sibillina di Sciascia, che si dipana sinuosa tra le pagine; tocca a noi seguirla, con l’impazienza del lettore di gialli e la meticolosità dell’appassionato di saggistica. Il giorno della civetta, a dispetto delle apparenze, è tutt’altro che una storia semplice, per citare un’altra degna opera del maestro siciliano; è invece un racconto da cui estrarre riga per riga, come un distillato, riflessioni pungenti sul propagarsi del fenomeno mafioso in Italia dalla Prima Repubblica a oggi. Né deve il lettore affaticarsi per riuscire in tale impresa; l’opera si presenta infatti nella veste fluida e leggera dell’articolo di cronaca, e tuttavia presenta molti livelli di lettura. Ai più accorti il compito di svelarli tutti.