Come capiamo se qualcosa è arte?

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«Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica, da lontano, a un movimento quasi impercettibile della mano, giungono nelle nostre abitazioni per rifornirci, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifesteranno a un piccolo gesto, quasi un cenno, e poi subito ci lasceranno». Così scriveva profeticamente Paul Valéry ed effettivamente è da qui che bisogna partire ancora una volta.

Quello che sappiamo già è che mai come oggi tutti credono di avere una storia da raccontare e che tutti pensano di poterlo fare, quella che invece sembra essere una bella gatta da pelare è tirare un discrimine tra cos’è arte e cosa no.
Non manca infatti chi lamenta la deriva ironica e teme l’abbandono di alcune categorie d’analisi e giudizio ritenute forse agée, superate e passatiste, drammaticamente “fuori moda” e chi teme che l’arrivo di questa multimedialità abbia permesso il progressivo dominio della banalità, del niente da dire.
È certamente vero che adesso abbiamo a disposizione un sacco di materiale in più da tenere d’occhio e questo ci lascia un po’ sperduti. Si capisce allora perché l’hype abbia un ruolo così importante in questi giorni: in un mare magnum da affrontare, trovare qualcuno capace di rielaborare la realtà per noi è davvero comodo (che sia il Release Radar di Spotify o un amico che ci invita a una mostra poco cambia). Chiunque gradirebbe una bussola in regalo, perso in un bosco fittissimo. Viene dunque naturale fidarsi della febbre del momento per quanto possa essere futile, semplice lol, estremamente debole (quanti artisti pubblicano una sola canzone a cui segue poi l’oblio?).

Comunque, bisogna ammettere che non è mai stato semplice definire cos’è arte. Lo stesso Baumgarten, il primo storicamente a dare una definizione di estetica, la descriveva come una «(teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare in modo bello, arte dell’analogo della ragione) è la scienza della conoscenza sensibile». Ora, senza volerci soffermare sui motivi specifici, possiamo aggiungere che questa definizione di estetica (che con quella parentesi già sottolinea ciò che essa vuole essere ancora prima di essere scienza della conoscenza sensibile) non va troppo genio a un pensatore fondamentale come Kant. Convinto dell’impossibilità di fissare regole a priori tramite criteri empirici, Kant segnala una tensione che ritroviamo ancora oggi: l’estetica (quella materia relativamente giovane che dovrebbe dirci cosa è arte) sin dalla nascita manca di un carattere unitario. Da una parte tentava di essere un sistema di pensiero adeguato con delle leggi fisse, dall’altro non dimenticava le sue urgenze più empiriche, materiali, il bisogno di capire cosa ci permetta di “sentire” e “capire“.
Aggiungiamo un ulteriore grado di complessità: l’arte è uno dei tanti prodotti che una cultura può tirare fuori. Nel 1690 ad esempio, la danza non veniva considerata una bella arte, a differenza della meccanica e dell’ottica.

Una cultura è un insieme di norme e ambiti: tormentoni, costumi (nel senso di mores latino), idee e modi; un esempio è l’arbitrarietà con cui ogni lingua comunica i propri concetti sia da un punto di vista espressivo (la pronuncia) che contenutistico (il concetto). Diverse culture producono in maniera arbitraria diverse parole (cane, dog, perro) per lo stesso concetto (il quadrupede mammifero, il migliore amico dell’uomo) in una maniera che di razionale ha ben poco. La cultura (come la lingua) segue sì degli schemi (spesso ricostruibili soltanto in un secondo momento) ma è autonoma e vitale: tutto quello che accade a una cultura è colpa di quella cultura stessa, di chi quella cultura la usa per esprimersi.

Dai a due culture lo stesso strumento e quest’ultimo si mostrerà esattamente per quello che è: uno strumento. Sarà allora la cultura a poterne sfruttare o meno le possibilità: per i cinesi la polvere da sparo è stata prima un fuoco d’artificio e soltanto poi un elemento per fabbricare proiettili, un esempio che segnala di fatto la serendipità, l’impulsività e la non-prevedibilità che ogni cultura annovera. Questa ineffabilità della cultura (e quindi anche dell’arte) è da imputare all’uso effettivo dello strumento: soltanto nell’utilizzare i nuovi strumenti messi a disposizione, in modo più o meno creativo e consapevole, essi acquisiscono un proprio senso.

Facciamo allora un esempio: mentre i critici dibattevano sul decidere quanto ci fosse di artistico nella fotografia, le fotografie già esistevano come “arte”: queste sapevano già essere portatrici di significati altri, non solo simulacri della realtà prettamente pratici (certo, potevano e possono esserlo: si pensi alla foto della scena di un delitto). La simulazione ironica, lo sfruttamento di stampe 3D, i vst in musica, la telematica sono strumenti allora che si realizzano nella pratica e che si muovono dietro un bisogno di concettualizzare e di nuovi modi per farlo.

Cos’è allora che ci dice cos’è arte e cosa, no? Quella che Kant definisce «eccedenza di senso», quel non-so-che, che dal determinato (lo spartito, la foto, la scultura) passa all’indeterminato. Certamente è possibile acquisire un grado di competenza più o meno alto quando si utilizza un determinato linguaggio, e anzi questa competenza va incoraggiata; a riprova di questo Salvador Dalì nel suo 50 segreti magici per dipingere mette subito in chiaro: «inizia con l’imparare a disegnare e a dipingere come gli antichi maestri. Dopo, potrai fare quello che vorrai: tutti ti rispetteranno» ed è di per sé già abbastanza esplicativo.
Il mandolinista con più titoli al mondo potrà sicuramente suonare una pizzica tecnicamente perfetta, ma non è detto che sia in grado di restituire quell’eccedenza di senso che un musicista salentino, magari meno perfetto nell’esecuzione, può comunicare a livello emozionale.
Per concludere, dunque, siamo certamente in grado di dire che non è la capacità di mettere in streaming le proprie composizioni che affossa lo stato della musica pop, né che lo eleva e lo salva da chissà quale stagnazione precedente; sta semmai agli artisti cercare di fare del proprio meglio, ritrovare una concettualità che guidi il lavoro e lo studio necessari a realizzare un’opera che sarà innanzitutto tecnica (nel senso proprio di “saper fare”) e poi in grado di comunicare qualcosa che vada oltre il gusto di due focaccine.

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Raffaele Lauretti

Il succo della storia fin qui: qualche tempo fa nacqui e, bisogna ammetterlo, questo fatto ha sconcertato non poche persone ed è stato considerato dai più come una cattiva mossa. Subito, infatti, conosco l'inevitabile angoscia del dover vivere una vita breve in un mondo assurdo: la palude bonificata dal fascismo. Ho conseguito la maturità al Liceo Scientifico G. B. Grassi di Latina; proprio in quegli anni scopro di avere, per una rarissima coincidenza, lo stesso sex appeal di una contusione. Decido quindi di abbandonare le scoline e trasferirmi a Bologna, dove studio filosofia per cercare di sfuggire alle logiche stringenti degli algoritmi del Capitale. Sono un ministro della Chiesa Dudeista (sì, quella del Grande Lebowski) e, nel tempo, credo di essermi fatto prendere la mano dall'epistemologia. Quando non sono a prendere una laurea triennale, ascolto musica da neri e scrivo di rap per un paio di siti (Rockit, La Casa del Rap), rifuggo l'INPS, mi rintano nelle carni altrui, preparo ottime carbonare. Dopo aver diretto la sezione di musica de Il Meglio di Internet per qualche mese, sono approdato su theWise dove, visti e considerati i miei studi di cui sopra, curo una rubrica in cui cerco di approfondire i pensatori che maggiormente hanno influenzato il pensiero occidentale. Nonostante io mi consideri un asociale con brio, posso dire di divertirmi abbastanza. Ah, una volta Guè Pequeno mi ha insultato e non so bene cosa pensarne.