Perché tutti dovrebbero leggere la Bibbia
La Bibbia, con cinque miliardi di copie, è il libro più venduto nella storia. Nulla di cui stupirsi se si considera quanto, nel tempo, abbia preso piede la figura di un Cristo incastrato nel cliché del feticcio da tramandarsi di comunione in comunione. Ognuno in casa propria possiede almeno una Bibbia, spesso se ne trova una copia nel comodino delle camere d’albergo. I mercatini dell’usato vendono a qualsiasi prezzo stampe più o meno preziose, bibbie miniate, di Gerusalemme, TOB, TINTI.
Eppure, nonostante la sua larghissima diffusione, la Bibbia è più che altro oggetto imprescindibile in camere e salotti alla stessa stregua di elenchi telefonici e vocabolari: niente che sia da tenere in considerazione dal punto di vista letterario se non da addetti ai lavori e credenti devoti. Certamente questo è da ricondursi a quel tipo di presunzione tutta moderna e tutta occidentale che ritiene che essa sia una lettura per soli fanatici religiosi, inutile per un qualsiasi tentativo di crescita personale. Ma un’altra motivazione potrebbe essere che fin da bambini, la Bibbia viene somministrata in maniera quasi subliminale, senza lasciare che il singolo vi si accosti, sia eventualmente per una questione di fede, sia per una questione di curiosità. È quasi come se, riuscendo a rifuggirne la lettura quando ancora si è piccoli, si sviluppi da più grandi una sorta di senso di aberrazione e insofferenza tanto forti da far dimenticare che la Bibbia, prima di qualsiasi altra cosa, è semplicemente un testo. Un vero peccato, perché la lettura della Bibbia svincolata da ogni motivo religioso ce la fa apparire come una creazione decisamente singolare.
Innanzitutto, sotto il punto di vista stilistico, la prosa è talmente scarna ed essenziale da contrastare con la descrizione di miracoli e meraviglie, al punto da rendersi spesso tagliente. Basti pensare al passo della Genesi 1:1-5 «Dio disse “Sia fatta la luce” e luce fu». Lo stesso stilema sintattico viene adoperato in relazione all’intero Creato. Proprio su queste parole si sofferma nel Trattato sul Sublime l’Anonimo del Sublime che sottolinea la semplicità della frase in funzione di un evento straordinario: tramite l’utilizzo di sole quattro parole (in greco: γενέσθω φώς και εγένετο) si riesce a sintetizzare, seppur non svilendone la portata, la prima azione e quella fondamentale, la creazione del tutto dal niente. In questo punto, come in molti altri, si raggiunge una tensione espressiva che non trova equivalenti.
Ma la Bibbia è anche un’opera progenitrice di molti dei nostri generi letterari. Basti pensare al secondo libro, quello dell’Esodo, all’interno del quale è offerto un racconto che oggi potrebbe essere definito epico: Mosè libera in Egitto gli Ebrei dalla loro oppressione e conduce tramite il Mar Rosso e il deserto del Sinai il popolo eletto a incontrare il suo Dio.
Esistono storie narrate nella Bibbia che sono arrivate a noi con la stessa autorevolezza del mito di Orfeo o di quello di Eco e Narciso. È il caso per esempio della storia di Caino e Abele, o della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso, o della Resurrezione di Lazzaro. Ognuno di questi episodi, al pari dei testi latini e greci che pur leggiamo con meno stizza, ha ricevuto una critica letteraria del tutto slegata rispetto a ogni dogma di fede.
Il libro dei Salmi, invece, racchiude passi di forte lirismo, al pari di quelli di Sylvia Plath, Thomas Eliot o Ezra Pound.
«[…]Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo».
Inutile poi sottolineare come la Bibbia sia alla base di tutta la nostra cultura, che ha sempre guardato a quel testo. Da sempre la letteratura occidentale ha trovato nelle parole della Bibbia un vastissimo repertorio lessicale e iconografico al quale tutti hanno attinto. A questo proposito si è espresso George Steiner, dicendo: «La nostra poesia, il nostro teatro e la nostra narrativa sarebbero irriconoscibili se omettessimo la presenza continua della Bibbia[…]. Quale voce unica può rendere conto dell’utilizzo di Acab e di Giona fatto in Moby Dick, del riuso di personaggi biblici e delle epistole nella Divina Commedia di Dante, e della rinarrazione massicciamente amplificata del mondo dei Patriarchi nella tetralogia che Thomas Mann ha dedicato a Giuseppe? Se un personaggio secondario come la moglie di Lot appare già nella poesia medievale inglese, la si ritrova in Blake o in Joyce. Ma si trova pure al centro del poema di D. H. Lawrence, She Looks Back. La sostanza di Mosè e di Sansone occupa un posto di primo piano nel romanticismo francese con Victor Hugo e Alfred de Vigny. Proust, come noi lo conosciamo, non esisterebbe senza Sodoma e Gomorra. Non ci sarebbe neppure Kafka senza le tavole della Legge».
La stessa comprensione di un libro importantissimo come I fratelli Karamazov di Dostoevskij sarebbe del tutto impensabile senza la contestualizzazione dell’epigrafe all’inizio dell’opera: «se il chicco di grano, caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Con queste parole infatti Cristo aveva annunciato l’ora in cui bisognava glorificare il Padre, il momento della crocifissione.
E varie sono state anche le riscritture di alcuni di passi, come quelle fatte al Libro di Giona, il più breve, per esempio ad opera di Chessex.
E chiaramente non è solo la letteratura ad avere attinto a questo repertorio, ma tutte la arti in genere: la pittura, la scultura, la fotografia come il cinema.
Non ha affatto sbagliato, dunque, Aurbach quando nel suo Mimesis ha posto, insieme all’Odissea, anche la Bibbia come libro cruciale per il nostro patrimonio di conoscenza. Tutti i prodotti artistici della nostra cultura hanno questo testo, non esclusivamente sacro, come unico presupposto.