Autonomia: cosa cambierà dopo i referendum?
Lo scorso 22 Ottobre in Veneto e Lombardia si sono tenuti due referendum consultivi sull’autonomia delle due regioni. Si chiedeva ai cittadini se fossero d’accordo a iniziare le trattative con il governo che potrebbero attribuire maggiori forme e condizioni particolari di autonomia alle loro regioni. Il “sì” ha ottenuto la vittoria in entrambe.
In Veneto, il quorum fissato al 51% è stato abbondantemente superato con il 57% dei votanti che si è recato alle urne. La vittoria del “sì” è stata schiacciante: il 98% dei Veneti circa vuole maggiore autonomia.
In Lombardia lo scrutinio è andato a rilento a causa dell’introduzione dell’e-voting, ma alla fine il risultato è stato chiaro anche lì: con un’affluenza intorno al 40% – non c’era un quorum da raggiungere -, i “sì” si sono attestati al 95%.
Cosa cambia adesso?
Nell’immediato, nulla. Si trattava di due referendum consultivi, non vincolanti per il governo. Il valore politico però non può essere ignorato: l’investitura popolare permetterà ai due presidenti delle regioni, Roberto Maroni per la Lombardia e Luca Zaia per il Veneto, di presentarsi più forti al tavolo delle trattative che si apriranno con il governo. La procedura prevista dalla Costituzione per ottenere maggiora autonomia può essere avviata anche senza un precedente referendum consultivo, ma l’obiettivo dei promotori delle due consultazioni popolari era proprio quello di ottenere il consenso dei cittadini per poi essere più forti durante i negoziati con Palazzo Chigi.
L’articolo 116 della Costituzione Italiana, al terzo comma, prevede che le regioni con un bilancio in equilibrio possono chiedere al Governo che gli venga affidata la competenza di nuove materie oltre a quelle delle regioni a statuto ordinario, insieme alle risorse con cui gestirle. Una volta avanzata la richiesta, si apre il tavolo delle trattative tra Governo e Amministrazione locale. Raggiunto un accordo, deve esserci l’approvazione di Camera e Senato. Il 116 fa riferimento alla così detta autonomia differenziata e definisce quali sono le materie di contrattazione. Si tratta delle venti materie di legislazione concorrente, gestite in concorrenza tra lo Stato e le regioni, tra cui: rapporti internazionali e con l’UE, tutela e sicurezza del lavoro, istruzione, ricerca scientifica, tutela della salute, protezione civile, beni culturali. In più, altre tre materie che attualmente sono di esclusiva competenza statale e che invece potrebbero passare alle regioni: organizzazione della giustizia, norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente.
Tra queste non emerge la materia fiscale, tema su cui è stata incentrata l’intera campagna elettorale e su cui il governatore del Veneto ha fatto pressione nei giorni successivi al voto. Il tema del residuo fiscale è sempre stato uno dei cavalli di battaglia della Lega Nord. La richiesta che viene fatta da anni è quella di avere la possibilità di trattenere sul territorio maggiori risorse finanziarie derivanti dalle imposte locali. Le due regioni, come conseguenza della maggiore autonomia sulle famose 23 materie, reclamano il recupero di almeno una parte del residuo fiscale: della differenza, negativa in questo caso, tra i contributi versati a Roma e quel che torna indietro nelle due regioni in termini di servizi. Luca Zaia, ha lanciato la richiesta di poter trattenere i 9/10 dei contributi sul proprio territorio. Richiesta che non verrà sicuramente esaudita dal governo centrale e che sembra impossibile anche a chi è più vicino al presidente. La questione fiscale viene trattata nell’articolo 119 della Costituzione, non rientra tra quelle che saranno sul tavolo delle trattative, come ha sottolineato Claudio Vincenti, Ministro della Coesione territoriale, subito seguito dall’eco di Maurizio Martina, Ministro dell’agricoltura. Roma quindi esclude che possa esserci una contrattazione sulla materia fiscale, in quanto non prevista dalla Costituzione.
Altra richiesta impossibile da realizzarsi, sempre avanzata dal governatore del Veneto, è quella di ottenere lo Statuto Speciale. Mentre l’ottenimento di maggiore autonomia è possibile grazie all’articolo 116 del Titolo V, riformato nel 2001, l’aggiunta di Lombardia e Veneto tra le regioni a Statuto speciale implicherebbe una modifica della Costituzione. Ora come ora una riforma del genere non sembra realizzabile e non era tra gli obiettivi del referendum. Il governo centrale, comunque, è pronto al dialogo. Il premier Paolo Gentiloni ha annunciato fin dall’inizio di essere pronto al confronto con i presidenti delle regioni e ad aprire il tavolo delle trattative.
Tutto quindi si è svolto e si svolgerà nei limiti e nel rispetto della legge e della Costituzione, nulla di assimilabile al referendum Catalano di qualche settimana fa. L’accostamento che molti hanno fatto tra le due consultazioni italiane e quella catalana è completamente fuori luog: gli obiettivi erano ben diversi e lo saranno sicuramente anche i risultati.
Quelli italiani sono stati dei referendum legali, che hanno avuto luogo grazie all’accordo delle regioni coinvolte con lo stato centrale. Il voto catalano dello scorso primo ottobre, al contrario, è stato ritenuto illegale dello stato iberico. Secondo la costituzione Spagnola, la Catalogna, in quanto regione autonoma, ha delle competenze speciali su determinate materie, ma non ha il diritto di convocare un referendum secessionista. Il dibattito sulla legalità o meno della consultazione ha portato a numerosi scontri (anche violenti) prima e dopo il voto. Cosa non successa in Italia, dove tutto si è svolto nella massima legalità.
La situazione di partenza è altresì ben diversa. La Catalogna ha delle competenze che poche altre comunità autonome hanno. Gode di uno statuto di autonomia ben più ampio di quello che hanno le regioni italiane: ha una propria guarda armata, il catalano è insegnato nelle scuole e nelle università. La richiesta che avanza ormai da anni è quella di avere maggiore autonomia anche a livello finanziario: la Catalogna contribuisce in larga parte al PIL spagnolo e, secondo i catalani, quel che torna indietro dallo Stato Centrale è troppo poco. In parte l’argomentazione è simile a quella portata avanti dal Carroccio in tutti questi anni e che il governatore Zaia ha provato a far tornare a galla. Le rivendicazioni di Veneto e Lombardia partono comunque da una situazione di più limitata autonomia: l’Italia è uno stato fondamentalmente centralizzato.
La differenza più grande sta poi nell’obiettivo che i promotori delle due consultazioni si sono posti. Le regioni Veneto e Lombardia chiedono una sorta di federalismo differenziato: maggiore autonomia su alcune materie, nei limiti dettati dalla Costituzione. La Catalogna, invece, ha un obiettivo ben più ambizioso: la formazione di una Repubblica indipendente. Quello del primo ottobre è stato un vero e proprio referendum secessionista. Lo scontro tra il governo autonomo Catalano, guidando da Puigdemont, e lo Stato Spagnolo è stato aspro fin da subito: il premier Rajoy ha mandato la Guardia Civil per tentare di reprimere il voto lo scorso primo ottobre. La situazione, nonostante siano passate ormai settimane, non sembra migliorare. La dichiarazione unilaterale d’indipendenza da parte della Catalogna e la conseguente attivazione dell’articolo 155 della Costituzione spagnola, per sospendere l’autonomia della regione, sono solo un nuovo punto di partenza.
Cosa hanno in comune le due situazioni? Nulla, si può dire. Il fatto che i referendum si siano svolti a poche settimane di distanza l’uno dagli altri ha solo fatto sì che il dibattito si accendesse, ma i punti in comune sono praticamente inesistenti.
Tornando all’Italia, la vittoria del “sì” rivitalizzerà l’animo leghista e secessionista degli scorsi anni? Cambierà in qualche modo l’assetto politico italiano? Di certo il risultato della consultazione non può essere ignorato e le trattative richiederanno tempo, ma la conclusione non potrà che essere il raggiungimento di un compromesso nel pieno rispetto della nostra legge fondamentale. Lasciando da parte gli slanci iniziali su richieste poco realizzabili, sia le regioni sia lo Stato italiano sono concordi nel trovare un accordo dentro un quadro di sostenibilità e solidarietà. Si richiede maggiore autonomia come strumento per ottenere un rapporto più stretto tra cittadini, amministrazione locale e Stato centrale.
Un referendum del genere a pochi mesi dalle elezioni politiche avrà comunque la sua importanza nell’intero quadro nazionale, non solo nelle due regioni coinvolte. La Lega Nord, principale partito promotore della richiesta di autonomia, rischia di uscirne danneggiata. Matteo Salvini sta portando avanti una campagna per allargare i consensi a tutto il paese, con il movimento “Noi con Salvini” che cresce sempre di più nel centro e sud Italia. La percezione anti-sudista dei referendum appena passati non aiuterà il leader del Carroccio nel suo tentativo. La vittoria del “sì” avrebbe dovuto essere un successo per la Lega Nord, ma Matteo Salvini continua a tenere un basso profilo e ad usare parole caute per non perdere i consensi appena conquistati nel centro-sud. La svolta populista e nazionale del Carroccio, inoltre, non è ben vista da alcuni esponenti del partito che vorrebbero concentrarsi più al nord, dove la Lega Nord è nata e dove continua ad avere maggiori consensi. La stessa leadership di Salvini potrebbe essere messa in dubbio: alcuni individuano già in Luca Zaia il prossimo leader leghista, nonostante l’interessato abbia più volte detto di volersi concentrare sulla sua regione, soprattutto dopo i risultati del referendum.
I toni sono cauti anche negli altri schieramenti. I leader nazionali hanno definito la vittoria del “sì” impossibile da ignorare e si sono detti pronti a seguire le trattative. In vista delle elezioni politiche del 2018 nessuno di loro vuole perdere consensi né tra quegli elettori che hanno votato per una maggiore autonomia delle loro regioni, né nel resto d’Italia. Il punto che tutti tendono a sottolineare e che distingue il voto italiano da quello catalano, è la certezza che tutto si svolgerà nel pieno rispetto della legge e della Costituzione italiana. Il premier Paolo Gentiloni si è detto aperto al dialogo e a discutere «di come far funzionare meglio il Paese, non […] dell’Italia e della sua unità».