Wade e Anthony: ultimo tango in NBA

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La stagione NBA è appena agli inizi eppure fin da subito sta mostrando – come se ce ne fosse bisogno – che ogni anno è qualcosa di completamente diverso rispetto al precedente e che tutti i progetti e le previsioni fatte in estate possono crollare miseramente in un lampo nonostante i buoni propositi.
L’infortunio di Gordon Hayward durante la prima partita della stagione – che lo terrà fuori per tutto il resto della stessa – o l’esordio traumatico dell’attesissimo Lonzo Ball in NBA o ancora l’inizio roboante di Giannis Antetokounmpo sono solo alcuni eventi che contraddistinguono il carattere imprevedibile della lega americana, fungendo da miccia per altri accadimenti futuri che li seguiranno e contribuiranno a questo tipo di fama che la NBA si è guadagnata nel corso della sua storia.

C’è da dire però che – in termini di premesse – già quest’estate le aspettative per la nuova stagione erano altissime, sia per le nuove leve in procinto di esordire (valga il già citato Lonzo Ball per tutti), sia perché alcune trade avevano sconvolto gli equilibri della lega con stelle e uomini franchigia che avevano deciso di cambiare casacca, spesso in maniera rocambolesca.
Da Chris Paul a Paul George, passando per la trade Irving – Thomas, la finestra di mercato estiva ha messo parecchia carne al fuoco, e tutto questo è culminato nei due scambi simbolicamente più importanti del periodo: la fuga di Carmelo Anthony da New York verso Oklahoma e il ritorno di Dwyane Wade alla corte di LeBron James.

Mentre il primo con questa sua decisione ha scelto – dopo anni di stagnazione a New York – di uscire dalla sua comfort zone per tentare di dare l’assalto a quel titolo che ancora manca, il secondo – dopo un anno francamente rivedibile nella natia Chicago – ha deciso di ritornare all’ovile del Re per cercare di sconfiggere la corazzata di Golden State e scrivere ancora una volta il suo nome nella storia di questo sport.

2017: fuga da New York

La cacciata di Phil Jackson dalla carica di GM dei Knicks nel Giugno di quest’anno riflette pienamente l’attuale situazione della franchigia di New York, ovvero ricostruire dalle macerie di una gestione scellerata attorno a Kristaps Porzingis, e rende chiarissima la decisione di Melo di abbandonare la sua vecchia squadra per giocarsi le sue ultime reali possibilità altrove.
I Knicks avevano un grosso problema rappresentato dalla no-trade clause di Anthony, una clausola che il giocatore poteva decidere di esercitare su qualsiasi scambio non fosse di suo gradimento e che lo poneva in una situazione di forte superiorità rispetto alla dirigenza, legandole di fatto le mani; tuttavia un sapiente lavoro di diplomazia e l’interesse del giocatore verso alcune franchigie specifiche hanno fatto sì che lo scambio con gli Oklahoma City Thunder avvenisse senza troppi problemi.
I Thunder hanno dovuto separarsi da Enes Kanter, Doug McDermott e una scelta al secondo giro del Draft 2018 il che, tutto sommato, è stato un ottimo prezzo da pagare per un giocatore simile.
L’innesto di Carmelo Anthony nel roster di OKC, unito a quello precedente di Paul George, ha stravolto la squadra di Russell Westbrook ponendola sul tetto della Western Conference e mutando sensibilmente la corsa ai Playoff, almeno ipoteticamente.

L’aggregare in squadra tre personalità che amano avere palla in isolamento (tutti e tre sono fra i primi dieci giocatori che l’anno scorso hanno utilizzato più frequentemente questa soluzione offensiva) e che quindi possono “darsi fastidio” in attacco, crea ragionevoli dubbi, così come l’andare a stravolgere la chimica di squadra che l’anno scorso era totalmente incentrata su Russell Westbrook con quest’ultimo che nella stagione in corso dovrà necessariamente dividere onori e oneri con le altre due stelle; inoltre permangono grossi dubbi sull’effettivo quintetto titolare che dipenderà in massima parte dalla voglia di Carmelo Anthony di giocare da 4.

Tuttavia, almeno ipoteticamente, i benefici sembrano superare i costi considerando le infinite possibilità che la coesistenza di queste tre stelle può generare: innanzitutto Melo rappresenta il perfetto 4 in un roster small ball, avendo le caratteristiche fisiche per difendere sotto canestro e quelle tecniche per colpire dalla linea da 3 o attaccare l’uomo dal palleggio in attacco. In un ipotetico pick and roll Melo-Westbrook la difesa non può più uscire forte sul blocco preoccupandosi della sola penetrazione di quest’ultimo, a causa della presenza di Anthony dietro l’arco che, qualora il difensore recuperasse, può comunque ribaltare per Paul George sul lato opposto aprendo ancora di più la difesa. Infine la presenza di tre giocatori offensivi di questo tipo non obbliga più Westbrook a creare dal nulla in attacco, permettendogli quindi di non sprecare tutte le sue energie in attacco, rendendosi utile anche in difesa (grosso tallone di Achille nella scorsa stagione, soprattutto lontano dalla palla) e avere ancora benzina per i finali di partita.

Sarà imperativo per Donovan, il coach di OKC, spalmare efficacemente i minutaggi delle sue tre stelle e convincere Westbrook a dare un più concreto apporto nella fase difensiva; se ciò dovesse accadere i Thunder di quest’anno avrebbero tutte le caratteristiche per provare a vendere cara la pelle contro i campioni in carica.

Ritorno a Camelot

Il ritorno di Dwyane Wade come compagno di squadra di LeBron James ha il sapore di un racconto dell’epica medioevale in cui le situazioni e i rapporti del passato ritornano con le dovute differenze nel presente; ripetere i fasti passati però sembra abbastanza improbabile sia per l’età anagrafica di Wade sia per i problemi che il roster dei Cavaliers presenta rispetto gli anni scorsi.

L’abbandono di Kyrie Irving in direzione Celtics ha creato grossi problemi al sistema di gioco dei Cavaliers che avevano nel ragazzo non solo un creatore di gioco – per quanto istintivo e metodico a tratti nelle letture – ma un altro giocatore (oltre LeBron) capace di focalizzare l’attenzione della difesa su di sé e quindi di creare spazio e allargare il campo per i tiratori sul perimetro oltre che garantire a LBJ qualche grado di libertà in più in attacco, con l’aggravante non poter essere lasciato libero da dietro l’arco data la sua pericolosità nel tiro perimetrale.
L’acquisto di Isaiah Thomas non ha potuto rimpiazzare un giocatore di questo tipo e il nativo di Seattle viene comunque da un infortunio che potrebbe portare a strascichi duraturi per il prosieguo della sua carriera; la dirigenza dei Cavs ha quindi deciso di suddividere il sostituto di Kyrie in due giocatori distinti.
È abbastanza improbabile che questa scelta paghi a causa di problematiche non solo fisiche – l’apice atletico di Wade è ormai passato e i suoi problemi alle ginocchia sono dovuti all’anzianità e all’usura fisica tipica del professionista consumato – ma soprattutto tecnico-tattiche del giocatore ex-Bulls.

L’anno scorso la maggior parte del contributo offensivo di Wade ai Bulls è venuto da situazioni di pick and roll e isolamenti che sfociavano quasi sempre però in tiri di difficile esecuzione o contestati (a causa dei problemi fisici sopracitati) ed è bene ricordare che – nonostante sia in grado di farlo – Wade non è mai stato un facilitatore in senso stretto, preferendo usare il blocco più per creare un tiro per sé stesso che per gli altri. Inoltre, lo scarso rendimento al tiro perimetrale dello scorso anno (un terribile 31%) non lo premia neanche nel continuo movimento di palla che i Cavs creano per trovare soluzioni comode nel tiro da 3.

Se a tutto questo si aggiungono i palesi problemi difensivi che Wade si porta dietro (per indole e tenuta atletica) e che pareggiano quelli che lo stesso Kyrie evidenziava – unico reale punto di incontro fra i due – allora si può tranquillamente affermare che i Cavaliers abbiano grosse falle da sistemare in ottica Golden State.
E se è vero che il Re medita sul suo futuro in Ohio, questa situazione a livello di roster potrebbe far pendere pesantemente l’ago della bilancia in una direzione che i tifosi di Cleveland non vorrebbero nemmeno ipotizzare.

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Lorenzo Vagnoni

Nasco nel 1990, contro la mia volontà, e ancora adesso non ho metabolizzato la cosa; oltretutto il traffico di Roma non è molto indicato per superare una trauma del genere. Da piccolo, quando si giocava a calcio, venivo messo sempre in porta, motivo per cui ho iniziato a giocare a basket e non ho praticamente più smesso, passando dall'infantile venerazione per un 23 calvo di Chicago al fanatismo verso un argentino nasuto di Bahía Blanca. Il mio interesse adolescenziale per il genere femminile, assolutamente non ricambiato, mi ha spinto a diventare un videogiocatore accanito, oltre che a leggere classici della letteratura di gente morta almeno cento anni fa. Scrivo perché mi piace e perché credo che la formazione di una cultura sportiva, ma non solo, di un paese inizi dalla competenza, dalla chiarezza e dall'obiettività dell'informazione che la veicola. Ho tre gatti grassi, una logorrea conclamata e ascendenze marchigiane, ma di quest'ultima cosa non ho colpa.