Weinstein: molestie e polemiche
La vicenda legata a Weinstein, il produttore cinematografico più influente dell’Academy da essa espulso per reiterate molestie nei confronti di numerose attrici (fra le quali Angelina Jolie e Asia Argento), ha sollevato un enorme polverone nella collettività: da una parte chi ha condannato l’atto deprecabile in modo unilaterale, dall’altra chi, come Libero tramite un articolo di Renato Farina, ha accusato le donne vittime di abusi di essere delle arriviste, che avrebbero barattato il loro corpo per il successo. In risposta a questo articolo, pubblichiamo la lettera di Velia Alvich, laureata magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia, che tramite il nostro giornale vuole esprimere il proprio parere sulla questione.
Bologna, 13/10/2017
«Non è una cattiveria sulle donne, ma la constatazione di com’è fatta la natura umana. È attratta dal miele del potere e del contante. È un gioco triste, ma qui non s’inventa niente. La storia che la prostituzione sia il mestiere più antico del mondo è stantia e falsa, dicono gli antropologi: prima ci furono la caccia, la pesca, la raccolta dei frutti, specie delle mele. Ovvio. Ci doveva essere per forza una merce da scambiare.
E siamo a Weinstein. Indifendibile, come ha detto George Clooney. Ma perché allora sarebbero difendibili le donne che hanno accettato il prezzo dello scambio? Perché lui era ricco, forte, e loro deboli e sole? Non diciamo sciocchezze. Il produttore della filibusta aveva un contatto che esse desideravano. Qual prezzo erano disposte a offrire?»
Cito qui un breve estratto di un articolo scritto da Renato Farina per Libero. Sarà che è venerdì 13 e ci avviciniamo ad Halloween, sarà che Feltri ha voluto imprimere una svolta spaventosa al suo giornale, sarà che mi sono svegliata con il piede sbagliato e leggere questo articolo ha suscitato in me tutta la rabbia repressa di una femminista che con la vecchiaia ha cominciato a depilarsi le gambe.
Saranno tante cose, ma non si può ignorare la nausea che mi ha colpito di prima mattina quando ho letto questo articolo. In realtà sono le 11.26 al momento della scrittura, ma i miei mezzi per dare enfasi alle parole sono meno vili di quelli usati da coloro che sono stati radiati dall’Ordine dei Giornalisti.
Non so neppure da dove cominciare per esprimere il disgusto che ho provato. Forse devo mettere le mani avanti, confessando di aver fatto un po’ di cherry-picking. Tuttavia, chi leggerà il resto dell’articolo si renderà conto che la sostanza non cambia un granché.
Si parla di prostituzione, di aver venduto l’anima insieme al corpo, di uno scambio per interesse. Eccezionale, direi. Un’analisi finissima fatta da un uomo dalla moralità impeccabile, suppongo. D’altronde è risaputo che il sistema dello scambio – antropologicamente rilevante, come sa benissimo il signor Farina che di antropologia ne sa a pacchi – funziona così, si basa su un rapporto fra una persona in condizione di debolezza e una che detiene un potere (fisico, politico, simbolico – tutte e tre ugualmente importanti). Il problema è che il signor Farina può avere ragione, in parte. Lo scambio non è sempre eguale, equo, giusto. A volte lo scambio serve a stabilire una gerarchia o un rapporto fra individui e comunità. Sono certa che il signor Farina conosca benissimo cosa sono il potlach e il kula, lui che l’antropologia la sente pulsare nelle vene.
Tuttavia il ricatto, il sopruso, la prevaricazione non possono essere considerati come scambio né devono essere accettati perché “il mondo va così”. Il mondo è fatto anche di diffamazione, favoreggiamento, pubblicazione di notizie false, ma mica dobbiamo accettare tutto ciò solo perché il mondo funziona così.
Nelle relazioni di potere, dove si può individuare chiaramente chi lo detiene e chi ne è escluso, è il modo in cui questo viene usato a determinare il valore dell’azione. Lungi da me il sostenere una comoda posizione relativista (grande cruccio dell’antropologia), anzi: è proprio una netta distinzione fra ciò che è giusto e ciò che non lo è a dare una direzione al nostro agire.
Per scendere più nel concreto voglio usare un esempio molto semplice, sperando che possa essere compreso da tutti coloro i quali la pensano come Farina.
In questo momento sono alla ricerca di un’occupazione. Se un potenziale datore di lavoro dovesse farmi delle avances, io non so come reagirei esattamente. La gamma delle possibili reazioni è vasta: dal “calcio nei coglioni così forte da mandarteli su a far salotto con le tonsille” – come cita un graffito bolognese – al rifiuto titubante. E se invece accettassi le avances per ottenere un lavoro? Sarebbe semplicistico ricondurre la mia decisione ad una forma di prostituzione, fisica e morale al tempo stesso. Il mio assenso sarebbe uno specchio della mia condizione di debolezza, reale o percepita. Non sono nelle condizioni di rifiutare e ho bisogno di lavorare (non sto affermando che lo farei, tuttavia, a scanso di facili equivoci). Accetto le proposte di un uomo dal quale non spero di ottenere piacere fisico o intellettuale per ricevere qualcosa in cambio. E, nonostante ciò, non è prostituzione.
Non lo è quando percepisci di essere in una condizione di inferiorità, quando sai che qualcuno può toglierti a suo piacimento una necessità, un desiderio, un progetto. È sopruso, un ricatto bello e buono. Si può davvero condannare la vittima di un ricatto? Siamo giunti davvero al capovolgimento più surreale, quello per cui la colpa è di chi subisce e non di chi agisce?
È sempre la solita solfa, sono sempre i soliti esempi. Se un malvivente ti punta il coltello alla gola per avere il tuo iPhone, probabilmente glielo dai perché sei affezionato alla vita. Se un delinquente ti chiede degli spicci e tu sai che, rifiutando, ti taglierà le gomme dell’auto, a malincuore gli darai un euro per il “caffè” perché in qualche modo devi tornare a casa. Se il tuo – o la tua – partner ti fa un occhio nero e ti intima di non chiamare nessuno altrimenti arrivano altre botte, tu ingoi il tuo dolore così da non avere altri segni sulla pelle. Una vittima che non denuncia, che è costretta ad accettare il sopruso, non è complice né tantomeno carnefice essa stessa. È inumano affermare il contrario.
Tornando alla questione iniziale, se una giovane attrice accetta le avances di un produttore in accappatoio e minchia tesa, probabilmente avrà paura di essere tagliata fuori. Avrebbe dovuto rifiutare? Certo che sì, di cosa stiamo parlando! Ma hanno tutte la forza per rifiutare?
Scommetto che il signor Farina non ha mai avuto la necessità di porsi questa domanda. Forse scado nella più becera banalità, ma è una questione che ci siamo poste almeno una volta noi donne (e penso anche molti uomini): avrei la forza fisica e morale per resistere?
La risposta non è sempre affermativa. Molte delle attrici che hanno trovato il coraggio di denunciare – comprensibilmente dopo diversi anni – sono state sufficientemente forti da allontanare Weinstein e mettere a repentaglio la propria nascente professione. Ma avere la tempra per farlo non è da tutti, né siamo in dovere di puntare il dito contro chi non ce l’ha, come non ci scagliamo più contro i mancini o chi è rosso di capelli. Il coraggio ce l’hai o non ce l’hai, e talvolta lo maturi negli anni, non senza dubbi, rimorsi, timori. Non è scontato averlo, non lo dobbiamo al mondo. Al più, lo dobbiamo a noi stessi.
Allora mi scusi, signor Farina, se sono un po’ puttana anche io (con l’aggravante di essere un’aspirante antropologa – ché si sa che son saccenti). Sarà bravo lei a declinare un’offerta che non si può rifiutare. Perché si sa che l’uomo, il maschio, non è attratto dal “miele del potere e del contante”. Perché si sa che è insito nella natura umana (femminile, ovviamente) quello di cadere nella trappola moschicida del vil danaro.
Sarò stupida io che ho sempre pensato che è connaturata nell’uomo (e nella donna, beninteso) la paura.
Spero solo che il signor Farina si ritrovi sempre dal lato giusto, quello delle persone che sono sicure di avere il coltello dalla parte del manico. Siamo tutti bravi quando non siamo costretti a scegliere.
Velia Alvich