Un bene pubblico chiamato ambiente
È una giornata come tante quella del 1 giugno a Washington, una di quelle che lascia presagire l’arrivo, tanto sperato, della stagione estiva. Il Rose Garden della Casa Bianca continua a ospitare, come da tradizione, rigogliose rose di ogni specie e colore: “Queen Elizabeth”, “Pascale”, “King’s Ransom”, “Pat Nixon” e altre ancora. Sono le 15:00 (ora americana) quando Donald Trump dà inizio alla conferenza destinata ad esacerbare gli animi di quanti credevano verosimile, per il tycoon, l’ipotesi di un passo indietro. Espressione sprezzante, pause da manuale, sguardo fiero e tronfio di chi prova un certo gusto nel trovarsi nell’occhio del ciclone. Senza troppi giri di parole, gli indugi vengono prontamente rotti: «The United States will withdraw from the Paris climate accord». Che sia un fulmine a ciel sereno non si può certo dire, considerando che Trump già aveva palesato al mondo il proprio scarso interesse per l’ambiente e il proprio scetticismo sul cambiamento climatico (un’invenzione, a suo dire, dei cinesi) fin dalla campagna elettorale. Non una sorpresa, dunque. Non per coloro, almeno, che non avevano mai sottovalutato la portata e l’autenticità delle dichiarazioni e delle promesse elettorali del Presidente americano.
Lasciando da parte sofisticherie e sofismi da politologi, la decisione del tycoon, lungi dall’essere priva di razionalità (la si potrebbe tacciare piuttosto di anacronismo storico) dà la cifra di quanto sia sempre stato (e continui a essere) complesso il raggiungimento di una cooperazione che sia veramente “internazionale” in materia climatica e ambientale. I tentativi, certo, non sono mancati, specialmente dagli anni Settanta in poi. Eppure, è evidente come le criticità di un tale regime internazionale permangano, al punto da rendere sempre più sdrucciolevole il terreno su cui si fonda il futuro dell’umanità.
Come accennato, fino agli anni Settanta la tutela dell’ambiente non esisteva nel dibattito pubblico e politico. Questa ha avuto origine in Europa, tra i Paesi del Nord, per poi trovare un canale di diffusione attraverso l’Unione Europea, la quale ha favorito l’adozione di standard comuni perfino da parte di Stati del Sud Europa. Tuttavia, non molto sarà fatto fino agli anni Novanta (fatta eccezione per il Protocollo di Montréal sui gas che danneggiano l’ozono), quando un nuovo impulso all’adozione internazionale di politiche ambientali arriva, quasi naturalmente, dal nuovo clima che si viene a creare con la fine della Guerra Fredda: sembra infatti che la sicurezza, che era stata l’obiettivo principale dei vari fronti che si erano combattuti, sia ormai passata in secondo piano, e che la comunità internazionale possa dunque concentrarsi sul perseguimento di altri scopi. Questo, va detto, anche grazie all’aumento delle dimostrazioni scientifiche a supporto delle tesi ambientaliste.
Da Stoccolma a Kyoto: il regime internazionale di tutela dell’ambiente
Il regime internazionale di tutela dell’ambiente nasce, a livello embrionale, con la Conferenza di Stoccolma del 1972 che, sotto gli auspici dell’ONU, ha istituito il “Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente” (UNEP). Come spiegato nel libro Le organizzazioni internazionali (a cura di Roberto Belloni, Manuela Moschella e Daniela Sicurelli), l’UNEP, al di là dei compiti che gli Stati gli attribuiscono volontariamente, detiene scarsissimi poteri: essenzialmente è uno strumento di divulgazione di informazioni, evidenza scientifica nonché best practices in materia di tutela ambientale.
Un’accelerazione si ha nel 1992 con la Conferenza di Rio sull’ambiente e sullo sviluppo, con cui si riconosce che l’emissione dei cosiddetti “gas serra” (essenzialmente la CO2) contribuisce al riscaldamento globale. Viene istituita, inoltre, la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), che prevede che tutte le Parti s’incontrino annualmente per analizzare il raggiungimento degli obiettivi di Rio, prevedendo modalità per ridurre le emissioni. Da allora, ogni anno, hanno luogo le cosiddette Conferences of Parties (COP), nell’ambito delle quali sono stati adottati importanti accordi che hanno previsto riduzioni delle emissioni, obiettivi comuni nonché sistemi di enforcement per garantirne il rispetto.
Il più famoso di questi è il Protocollo di Kyōto, firmato nella COP del 1997, il quale, seguendo il principio “common but differentiated responsibilities”, poneva vincoli stringenti alle economie maggiormente sviluppate, causa principale del surriscaldamento globale, e limiti più blandi ai Paesi in via di sviluppo (PVS). Era previsto un “Meccanismo dello sviluppo pulito” che rendeva l’inquinamento un bene scambiabile tra Paesi ricchi e Paesi poveri. Specificamente, 37 Paesi industrializzati e la Comunità Europea si impegnavano a ridurre le emissioni di “gas serra” del 5%, rispetto al 1990, entro il 2012. In seguito al Doha Amendment (2012), l’impegno assunse proporzioni più rilevanti (principio di progressività), e l’obiettivo divenne quello del 18% dal 2013 al 2020. Questa seconda fase, tuttavia, è considerata un fallimento: mentre alcuni Stati hanno realizzato gli obiettivi prefissati, altri o si sono tirati fuori dal Protocollo o hanno defezionato rispetto agli impegni assunti. I Paesi dovevano perseguire i loro traguardi ricorrendo perlopiù a misure nazionali e, in aggiunta, venivano forniti loro ulteriori mezzi:
- International Emissions Trading;
- Clean Development Mechanism (CDM);
- Joint implementation (JI).
Indubbiamente, il Protocollo di Kyōto presenta diversi strong points: permette, innanzitutto, una notevole flessibilità, garantendo agli Stati di raggiungere i propri obiettivi in maniera differenziata. Questi ultimi, poi, non sono troppo ambiziosi, e conservano quindi una certa credibilità. Inoltre, il fatto che alcuni Paesi fossero parte del trattato ma, di fatto, esclusi dal raggiungimento di obblighi ha permesso di avere un tasso di adesione altissimo, “tenendo a bordo” quegli Stati che, altrimenti, avrebbero scelto di rimanerne fuori.
Ciononostante, il Protocollo non risulta pienamente soddisfacente: l’efficacia del sistema di enforcement, per cui il meccanismo di flessibilità poteva essere usato a condizione di essere in regola con gli obiettivi assunti, è molto bassa perché, di fatto, aggiunge un impedimento a coloro che già hanno difficoltà a raggiungere gli standard. Di conseguenza, la realizzazione degli impegni assunti e lo scopo generale di Kyoto non sono stati facilitati, anzi, si è creato un contraccolpo anche in termini di membership. L’orizzonte temporale di attuazione del Trattato, poi, era molto limitato: gli impegni vincolanti arrivavano solo fino al 2012, dopodiché dovevano essere rinegoziati. Il risultato è stato che nel 2012 la maggior parte degli Stati non ha centrato gli obiettivi, decidendo, in molti casi, di uscire dal Protocollo. Inoltre, il prezzo da pagare per tenere a bordo Paesi che inquinano molto ma che sono ancora in via di sviluppo (Cina, Sudafrica) è stato lasciare che questi continuassero ad inquinare e, conseguentemente, l’impatto generale sull’ambiente non è stato significativo. È mancata anche l’adesione dei maggiori inquinatori del mondo, come Usa, Canada, Giappone e Russia, cosicché l’efficacia dell’Accordo è risultata pressoché nulla. La ragione principale per cui il Protocollo non ha funzionato è stata la crisi economica che ha coinvolto tutti i Paesi del mondo (2007-08), incentivando gli Stati a defezionare rispetto alla politica ambientale. Per questo motivo, durante la COP 21 di Parigi, si è ricercata una soluzione diversa, capace di colmare le mancanze del precedente regime.
La COP 21 e l’accordo di Parigi: una “svolta” amara
La COP 21 è la ventunesima Conference of Parties, tenutasi a Parigi nel 2015. La sua popolarità è dovuta all’obiettivo ambizioso di raggiungere un accordo internazionale riguardante il clima e di fissare a 2°C la soglia massima del riscaldamento globale. A fare da sfondo alla Conferenza è stato il più alto tasso di emissioni di “gas serra” mai raggiunto: in un articolo di Emanuela Di Pasqua per Il Corriere della Sera si evidenzia come l’anidride carbonica, nel 2014, abbia toccato i 397,7 ppm (parti per milione), e si stima che stia salendo di 2 punti annualmente.
L’Accordo di Parigi, come specificato su “Rinnovabili.it”, non pone vincoli ai firmatari, ma richiede, invece, la volontarietà degli Stati (196 membri dell’UNFCCC), disegnando un sistema pensato per andare a regime dal 2010 in poi, una volta terminato quello del Protocollo di Kyōto. L’Accordo ribadisce il principio “common but differentiated responsibilities”, per cui i PVS (Cina e India su tutti) potranno muoversi più lentamente nel raggiungimento dei propri obiettivi. Le due principali differenze rispetto al Protocollo di Kyōto sono:
- Tutti i Paesi principali sono coinvolti, e chi è più ricco deve aiutare finanziariamente i Paesi meno sviluppati allo scopo di ridurre le emissioni;
- Gli obiettivi non sono determinati in modo oggettivo, ma dovranno essere decisi e comunicati (ogni 5 anni) dagli Stati stessi in maniera volontaria, aumentandone progressivamente l’entità (principio di progressività).
Dall’analisi delle clausole emerge in modo preminente come l’assenza di vincoli aumenti in modo significativo le probabilità di una membership maggiore. Lo scopo generale dell’Accordo non è la riduzione di un certo volume delle emissioni, a differenza di Kyōto, bensì quello di limitare l’aumento della temperatura: per questo si condivide un obiettivo molto generico, evitando di specificare nel dettaglio come questo debba essere raggiunto. A Parigi l’obiettivo principale è stato tenere tutti i firmatari all’interno della causa, al prezzo, tuttavia, di una maggiore vaghezza negli obiettivi, nelle modalità d’attuazione e nel sistema di enforcement. In assenza di una road map, un impegno di questo tipo è poco più che un impegno verbale. La speranza era che da una maggiore legittimità (dovuta all’ampia membership) potesse scaturire una maggiore efficacia, in quanto uno dei deficit di Kyōto era stato proprio la scarsa membership. Si è preferito, dunque, avere obiettivi e strumenti vaghi, cosicché la riduzione delle emissioni sarebbe stata più bassa ma maggiormente generalizzata. Questa, almeno, era la speranza all’epoca dell’accordo.
La conclusione dell’Accordo è stata salutata dal fronte ambientalista in modo divergente: c’è chi, come il WWF, Greenpeace e Sierra Club, vede nel risultato di Parigi un trionfo e chi, come Oxfam e Friends of the Earth, pensa a una débâcle in materia di politica ambientale. Indubbiamente, la COP 21 lascia alle sue spalle tanta amarezza per quanto si poteva fare e non è stato fatto: innanzitutto, l’Accordo fissa una soglia per l’emissione di “gas serra” senza menzionare alcun limite per l’estrazione di combustibili fossili, e facendo «passa[re] dunque il principio della neutralità climatica e non quello delle emissioni zero o decarbonizzazione […]», come spiega ancora “Rinnovabili.it”. Per quanto riguarda la deforestazione, poi, nessun criterio è stato fissato per ridurla. Inoltre, il meccanismo “loss and damage”, inserito già nella COP 19 di Varsavia (2013) continua a non risarcire i Paesi colpiti maggiormente dal cambiamento climatico, a causa della mancanza di un sistema di enforcement capace di impegnare, quantomeno, al rispetto degli human rights. Inoltre, nel sistema di aiuti finanziari da parte dei Paesi industrializzati manca la specificazione dell’entità del sostegno, elemento che getta ancora più ombre sull’effettiva capacità della COP di raggiungere obiettivi significativi.
In conclusione, sebbene la Conferenza di Parigi abbia avuto il merito di dar vita ad un Trattato internazionale generalizzato sul clima, la mancanza di una road map, insieme alle problematiche esposte, sembra procrastinare la risoluzione del riscaldamento globale. Con la COP 22 di Marrakech, si tenterà la strada di una maggiore effettività sul piano operativo.
La COP 22: ancora tante incognite
La COP 22 di Marrakech (2016) si è aperta, da un lato, tra le incertezze di quanti avevano salutato l’Accordo di Parigi come un trattato privo di efficacia operativa, e, dall’altro, tra la fiducia di coloro che vi avevano visto una svolta. Ben 197 Stati si sono assunti l’onere di concludere, entro il 2018 (due anni prima dell’entrata in vigore dell’accordo), la normativa che dovrà conferirvi piena operatività e che dovrà illustrare una road map. Inoltre, “Repubblica.it” spiega come sia stato ribadito l’impegno di realizzare il Green Climate Fund di 100 miliardi di dollari, il fondo creato durante la COP 16 di Cancún (2010) per ridurre le emissioni nei PVS.
Tra i problemi principali dell’Accordo di Parigi vi era la mancanza di chiarezza riguardo le modalità di finanziamento ai PVS; durante la COP 22, i Paesi industrializzati hanno stabilito di destinare, ogni anno dal 2020, cifre progressivamente più alte al fine di aiutare questi Stati a combattere il riscaldamento globale; è opportuno ricordare che durante la COP di Copenaghen (2009) le economie avanzate avevano già deciso di elargire 100 miliardi di dollari fino al 2020, un importo, tuttavia, che “Affaritaliani.it” definisce, in un suo articolo, inadeguato.
Alla base della Conferenza di Marrakech vi è dunque l’intento di perseguire l’obiettivo di Parigi, fissando la soglia massima del riscaldamento globale a 2 °C o 1,5 °C. Come sostenuto da Les championnes du Climat, i supervisori delle negoziazioni, tale obiettivo è possibile a condizione di limitare la deforestazione: un problema, questo, che aveva già oscurato l’esito della COP 21. Uno sfruttamento maggiormente sostenibile delle foreste contribuirebbe alla riduzione del 25-30% delle correnti emissioni di carbonio. Si insiste, poi, sul ruolo fondamentale svolto dall’oceano nel contenimento del riscaldamento globale, un ruolo, tuttavia, minato dall’inquinamento. I trasporti, poi, sono ancora legati ai combustibili fossili per il 96% e le emissioni sono suscettibili di raddoppiare entro il 2050. Gli obiettivi di Marrakech, dunque, dovevano essere quelli di gettare le basi per una maggiore sostenibilità in termini di energia, sfruttamento idrico e geologico nonché di “villes résilientes”. Ma quanto di ciò è realizzabile?
“Focsiv” sottolinea come la COP 22 sia stata un trionfo sui diritti umani, in relazione alla “parità di genere” e alla consapevolezza del ruolo fondamentale dei PVS. Eppure, secondo Legambiente, quello di Marrakech non è un successo, soprattutto per quanto è stato concluso rispetto agli aiuti finanziari da parte delle economie avanzate: nonostante i 100 miliardi di dollari promessi, esse non si sarebbero dimostrate risolute nel ricercare “l’adattamento delle comunità vulnerabili ai mutamenti climatici in corso”. È sempre Legambiente ad affermare, poi, che l’Europa, in vista della COP 23 delle Isole Fiji (2018) debba assumere un impegno maggiore (rispetto al corrente 40%) nella riduzione delle proprie emissioni, con un progetto di “decarbonizzazione zero”. L’ambientalismo, dunque, sembra schierato nella richiesta di una maggiore sostenibilità, come dimostrano le dichiarazioni di Greenpeace Italia e WWF Italia riportate da “GreenBiz.it”.
Se uno dei successi maggiori della COP 21 era stata la partecipazione di Usa e Cina (insieme il 45% delle emissioni totali di CO2), le negoziazioni di Marrakech si sono aperte all’insegna di preoccupazioni circa l’esito delle allora imminenti elezioni americane. Donald Trump, infatti, nonostante l’evidenza scientifica, non ha mai creduto all’esistenza del cambiamento climatico, sostenendo come gli Usa dovessero smettere di finanziare la causa. Alla luce del recente “schiaffo” del tycoon all’Accordo di Parigi, numerose sono le perplessità circa le negoziazioni della futura COP 23: gli sforzi, spesi finora, di trovare un accordo che, seppur lacunoso, ha avuto il merito di aumentare la consapevolezza internazionale sulla questione climatica, potrebbero essere stati vanificati.
I problemi irrisolti
Nonostante i passi in avanti compiuti, soprattutto in relazione alla membership, all’adozione di un testo di riferimento, al limite posto alle emissioni e all’obiettivo di una road map, nelle Conferenze descritte ci si è scontrati con le difficoltà tipiche che caratterizzano i beni pubblici, ancor più se questi necessitano di essere garantiti a livello internazionale.
Essendo un bene pubblico, l’ambiente prevede dei costi fortemente concentrati (sostenuti principalmente dall’impresa/Stato che deve modificare i suoi standard di produzione) e dei benefici diffusi tra la collettività. Il modo per risolvere questo circolo vizioso sarebbe riuscire a quantificare il costo sociale dell’inquinamento e quindi far sì, banalmente, che chi inquina di più sostenga un costo maggiore; in effetti, questo è ciò che si è tentato di fare con le due COP analizzate, attraverso il meccanismo “common but differentiated responsibilities”. Tuttavia, la monetizzazione dell’inquinamento è un processo naturalmente complesso e le discussioni sul costo che l’impresa/Stato deve sostenere sono, quindi, inevitabili. Al termine delle negoziazioni di Marrakech, infatti, i Paesi sviluppati si dimostrano ancora ostili all’obiettivo di ridurre il divario in quegli accorgimenti tecnici imprescindibili per l’adattamento. In ambito internazionale, la situazione è complicata dalla mancanza di un sistema che possa garantire l’enforcement e obbligare, quindi, alla cooperazione. In assenza di un’autorità centrale riconosciuta, gli Stati devono scegliere di assumersi, volontariamente, un costo addizionale che non avrebbero in assenza di un certo regime, in cambio dell’ottenimento di un beneficio globale.
Il problema di una simile politica internazionale risiede tutto qui: porre in essere un meccanismo di enforcement garantirebbe l’attuazione degli obbiettivi da parte di tutti i firmatari, provocando, però, un contraccolpo in termini di membership, in quanto pochi sarebbero gli Stati disposti a “legarsi le mani” in cambio di un beneficio che verrebbe condiviso a livello internazionale, anche da chi continua ad inquinare (fenomeno del free riding). A ciò si aggiunge il problema che i costi dell’inquinamento non sono equamente distribuiti. L’Accordo di Parigi è stato ratificato, ad oggi, da un numero esiguo di Stati, per la maggior parte piccoli Stati insulari, coloro, cioè, che più hanno da perdere dal riscaldamento globale e per cui il costo dell’inquinamento è questione di sopravvivenza (anche se l’impatto che essi possono avere sulle emissioni è minimo). Per altri Stati, invece, i costi sarebbero più sostenibili (Stati Uniti, Cina, Russia), ma gli effetti che, potenzialmente, il riscaldamento globale avrà su di essi è inferiore. Questo gap tra potenziali benefici e potenziali costi complica, quindi, ulteriormente la cooperazione. Per queste ragioni, a differenza di altri campi, non è mai stata creata un’organizzazione internazionale che si occupasse specificamente di tutela ambientale.
L’analisi degli ultimi sviluppi internazionali in tema di tutela dell’ambiente ha dimostrato come si sia ancora lontani dal raggiungimento di un sistema efficiente, capace di ripristinare l’equilibrio climatico. Prima il Protocollo di Kyōto e poi le COP 21 e 22 hanno fatto dei passi in avanti rispetto alla considerazione del riscaldamento globale come un problema reale e imminente, favorendone la conoscenza a livello di opinione pubblica. Ciononostante, il modo stesso in cui il regime di questa politica è strutturato mostra lacune insolute, cui è difficile porre rimedio. I disincentivi per gli Stati a non cooperare, nonché gli incentivi alla defezione, sembrano essere maggiori rispetto al beneficio netto che potrebbero trarre dalla cooperazione stessa. La mancanza di un ente sovranazionale, capace di avocare a sé la gestione della materia e di coordinare l’azione degli Stati, è senza dubbio il limite principale all’efficienza del regime, per il quale l’enforcement, in assenza di un’organizzazione simile, si è dimostrata un’arma a doppio taglio.
La riprova di ciò si è avuta con la fuoriuscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, resa possibile dall’assenza di vincoli capaci di frapporsi tra la decisione del Presidente e la sua effettiva concretizzazione. La prerogativa delle Conferences of Parties tenutesi nel corso degli ultimi anni è stata quella di dar vita ad un Accordo contenente una road map, senza riflettere sulla necessità, del tutto primaria, di trovare un espediente concreto per garantirne l’applicabilità generalizzata: motivo per il quale, a oggi, l’Accordo di Parigi si presenta come “lettera morta”. Esperienze passate dimostrano come la gestione a livello sovranazionale di una determinata politica pubblica risulti, sebbene tra difficoltà e contraddizioni, il modo più adeguato per garantirne realizzazione e tutela: senza le Nazioni Unite, la difesa della sicurezza internazionale sarebbe appannaggio dei singoli Stati e, quindi, di interessi particolari e nazionali. Nonostante le evidenti criticità palesate dall’ONU (proprio in relazione alla gestione comune della sicurezza), si può essere concordi, tuttavia, nel riconoscere che quanto è stato realizzato sotto i suoi auspici, non sarebbe stato possibile conseguirlo sotto l’egida dei singoli Stati.
Il riscaldamento climatico è una realtà, così come è una realtà la necessità di un’azione globale coordinata. Se la COP 23 delle Isole Fiji (2018) riuscirà a porre l’attenzione su questo e non più solamente sugli standard di riduzione delle emissioni di “gas serra”, allora un passo in avanti, questa volta concreto, sarà stato realizzato.