A Cuba c’è sempre meno gelato
Prendete una qualsiasi giornata durante la stagione secca in Havana: una giornata calda, afosa. Per le vie della capitale cubana, il caldo tropicale si mischia con il forte odore di benzina proveniente da quelle macchine da drive-in tanto fotografate quanto odiate dai turisti, troppo ben abituati a scarichi Euro5. Una giornata perfetta per un gelato – come lo è ogni giorno, a parere di chi scrive – e, se siete a Cuba, è obbligatoria una visita alla catena Coppelia, gelateria istituita da Fidel negli anni Sessanta con l’intento di educare il popolo cubano alle dolcezze casearie. Si possono trovare gusti per noi esotici ma per i locali del tutto ordinari, come dulce de leche, guava, maracuja; ma al contempo, è purtroppo raro poter incontrare più di tre o quattro gusti alla volta, e viene difficile pensare che una delle cause dipenda da «quello che c’è di stagione» – come si sente dire dai locali in fila fuori dalla gelateria.
Fila che, fuori ogni Coppelia, può durare ore. Non tanto per la qualità del prodotto – il latte utilizzato è in polvere come lo sono gli ingredienti – quanto per la magia del posto. Se si paga in moneda nacional, infatti, si può accedere ad una struttura a forma di UFO su più piani, dotata di grandi vetrate che affacciano sul delizioso giardinetto interno, da dove si possono osservare con pietà i turisti che hanno pagato in pesos internazionali CUC, i quali vengono relegati al chioschetto di seconda categoria vicino alla strada. Pagando in pesos nazionali, il prezzo di Coppelia è altamente competitivo anche per i cubani: una barchetta da cinque palle di gelato e topping viene 10 CUP, cioè attorno ai 30 centesimi di euro. Ma chiariamo meglio i concetti di CUC e CUP: a Cuba girano due valute, cioè il peso cubano CUP, anche conosciuto come Moneda Nacional o MN, che viene usato principalmente dai cubani, e il peso cubano convertibile o internazionale, detto CUC, che viene usato da turisti, o per prodotti importati, alberghi e benzina – gli ultimi di dominio prevalentemente turistico, comunque.
Fare la fila per pagare in CUP, a Coppelia, comporta non solo la lunga attesa, ma anche altre piacevoli istanze, come quella di essere avvicinati da vecchietti che aprono la conversazione con uno straniero chiedendo: «Lei è comunista?». Ci può venire da sorridere al pensiero, ma è in fondo una domanda del tutto lecita in un paese dove facce e rispettive citazioni del Che, di Fidel e di Camilo, o del meno sanguinolento ma non meno venerato Jose Marti, compaiono su tutti i cartelloni autostradali al posto dei bralette di Intimissimi o delle insegne per il McDrive. Paese dove, sui cancelli delle industrie agricole, vengono realizzati sofisticati ponti intellettuali con slogan del tipo: «Cibiamo la Rivoluzione». Paese dove la televisione ha quattro canali, di cui uno è sempre in bianco e nero e data filmati fine anni Cinquanta. In un paese comunista, insomma, chiedere se uno è comunista è un atto sociale niente affatto insolito.
Dal camionista in pensione alla giovane diciannovenne laureanda in radio ingegneria, la stragrande maggioranza dei cubani si autodefinisce comunista. E sarà il continuo bombardamento visivo sopracitato, ma tale convinzione può trovare fondamenta in quei meriti del regime che qualsiasi rappresentante di ideologie politiche non potrebbe non ammettere. Il tasso di alfabetizzazione, ad esempio, che grazie alla dittatura ammonta a circa il 99,8%, e fa di Cuba il primo paese al mondo in tale ambito. O i dottori, e il sistema medico in generale, poiché non solo l’assistenza medica è pubblica e garantita a tutti, ma tale settore è molto legato a ricerca e sviluppo. Non a caso, i cubani vivono mediamente 78 anni, cifra molto alta per un paese di tale regione geografica – basti pensare allo stacco dei 30 anni di più che portano con i molto prossimi vicini di casa Haitiani.
Cifre da fare invidia anche ai più sviluppati paesi nord americani ed europei: tutto questo, però, in un contesto di stonante scarsità. Penne biro aggiustate con lo scotch, come fanno notare le padrone delle casas particulares che ricordano: «A Cuba non si butta niente». Scaffali di supermercati riservati ai turisti, perché troppo costosi per i cubani, che offrono solo ceci secchi e olio per friggere, come se avessero la coraggiosa pretesa di poterli vendere per davvero a chi risiede in una stanza d’albergo – albergo che, tra l’altro, risulta spesso all inclusive. Tutto indica una situazione cubana di scarsità di beni, più che di moneta: se una penna si rompe, è probabile che il tabacchino – l’unico nel circondario – non ne abbia un’altra se non dopo settimane. Si vendono ceci secchi e olio per friggere ai turisti perché è tutto ciò che arriva dalle importazioni. Situazioni, queste, che non vengono dettate solo dalla mentalità di un regime comunista, poiché, anche per i locali, questa scarsità appare distopica e controproducente.
Del comunismo cubano tanto se ne parla e tanto lo si idolatra, ma – tralasciando gli adolescenti in kefiah e dilatatore in legno – pochi lo supportano davvero, soprattutto tra quelli che contano, e i fan degli Ska-P non se la prendano. Basti pensare al comportamento degli altri paesi. Di recente abbiamo assistito alla ritirata venezuelana di rifornimento petrolifero verso l’isola di Castro, e poco tempo fa il giornale cubano Bohemia riportava il ribasso produttivo della sopracitata Coppelia causa malfunzionamento dei macchinari utilizzati dall’azienda. E sarà la mole di lavoro, saranno i 16.100 e più litri di gelato serviti giornalmente a circa 35.000 clienti a mandare in tilt quei macchinari URSS – sì, avete capito bene, URSS e non russi, perché risalenti all’Unione Sovietica degli anni Settanta. Macchinari, cioè, per i quali trovare pezzi di ricambio o persone che si ricordino come aggiustarli può risultare non del tutto semplice.
Ed è questo ciò di cui soffre un paese rimasto praticamente solo, parlando di direzione politica, in tale parte dell’emisfero e oltre. Specialmente dagli anni Novanta in poi, poiché l’Unione Sovietica garantiva una grande affinità culturale da un lato, ma un ancor più grande supporto economico dall’altro, attraverso, ad esempio, il Comecon. Al crollo del comunismo sovietico, Cuba è entrata nel famoso periodo especial, dove gravi mancanze di petrolio e beni di prima necessità hanno messo a dura prova l’appoggio cubano verso il regime. Ma la crisi economica cubana attuale non è solo un lascito degli anni Novanta: ha infatti radici più recenti, e il paese manifesta la sua incapacità di porvi rimedio attraverso gli scaffali di supermercati e farmacie semivuoti, alle panetterie che offrono una sola tipologia di pane, a quella scarsità di cui si è parlato poco prima, capace di mettere in rischio anche Coppelia, una delle aziende cubane più storicamente ed economicamente rilevanti dell’isola.
Nel 2008, Cuba ha visto la crescita del GDP, il quale era in costante aumento con un picco estremamente positivo (12,1%) del 2006, abbassarsi fino a un meno promettente 1,4% nel 2009. Questa diminuzione di crescita è stata causata da un’imponente crisi del settore bancario: ciò porta aspre implicazioni per l’economia reale in termini d’investimento diretto estero e commercio internazionale. È purtroppo difficile poter fare un’analisi della situazione dettagliata, data la scarsità di dati che il governo cubano mette a disposizione. Ma possiamo dire che la crisi bancaria cubana è principalmente dovuta ad una crisi di liquidità esacerbatasi nel 2009, dovuta anche alla presenza della doppia valuta, che ha generato una crisi di convertibilità: le istituzioni depositarie cubane hanno emesso una spropositata quantità di CUC non protetto, mettendo in difficoltà le banche per i pagamenti verso l’estero. Chi ha visitato Cuba può aver pensato che la presenza di CUC e CUP potesse agevolare l’economia interna, in quanto i prezzi in moneta internazionale si sarebbero potuti permettere di essere nettamente maggiori rispetto a quelli in moneta nazionale. Ma in realtà i CUC – valuta nata tra l’altro nel 1994, per far fronte alle rivolte popolari contro il periodo especial – viaggia quasi separatamente dal CUP, indebolendo così l’economia interna.
La crisi bancaria è stata inoltre causata da una crisi della bilancia dei pagamenti (cioè del registro delle transazioni del paese con il resto del mondo), riflettendo certamente la situazione di crisi economica mondiale ma riportando anche tre variabili endogene. La prima risiede nel deterioramento dei termini di commercio: il paese è uno dei primi al mondo in produzione di nichel, i cui prezzi sono stati abbassati dalla crisi del 2008, stesso periodo in cui il paese ha dovuto aumentare l’acquisto di altri beni esteri come petrolio e cibo. A incrementare l’importazione di cibo ha contribuito l’intenso periodo di uragani di tale anno, il quale ha danneggiato l’isola e i suoi raccolti per un ammontare di 10 miliardi di dollari statunitensi. Infine, l’efficiente servizio medico di esportazione ha subito un ribasso, specialmente in Venezuela, paese economicamente stretto a Cuba da un patto bilaterale del 2004. Cuba è stata vittima della legge dei rendimenti decrescenti: i profitti dovuti ai servizi medici o ai dottori attivi in Venezuela non tornano sempre a Cuba, e, quando lo fanno, è sempre in misura molto minore rispetto al profitto originale. Continuare a fornire il Venezuela della medicina cubana, inoltre, danneggia la qualità e presenza del servizio medico nell’isola comunista. Infine, ad aggravare questo scenario, arriva l’incapacità del regime – fin dal 2003 – di eseguire performance soddisfacenti nelle industrie agricole e manifatturiere, incapacità forse dovuta alla ri-centralizzazione dei settori iniziata nel 2003.
Per far fronte a questa crisi bancaria, il paese ha istituito una serie di cambi istituzionali e strutturali, e – come in altri casi a noi familiari – ha imposto misure di austerity, tra cui l’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni per uomini e 60 per le donne. Si era anche pensato all’eliminazione della cartilla de racionamento (tessera di razionamento): fortunatamente, tale beneficio è riuscito a sopravvivere e compiere mezzo secolo nel 2013. Data la scarsità di dati pubblici e la lentezza nel campo delle riforme dovute alle mentalità politica e culturale dell’isola, è difficile poter verificare l’efficacia di tale riforme oggi. E l’avvicinamento con gli Stati Uniti, o l’apertura verso la privatizzazione, danno un forte segnale sull’incapacità del regime di riempirli, quegli scaffali vuoti. Staremo a vedere, ad esempio, se l’amata Coppelia arriverà a morire rispettando i suoi ideali: convinta, anzi illusa, di poter vivere, come i suoi macchinari degli anni Settanta, para siempre.