theWise incontra: il Cartastorie, un affascinante archivio-museo
Un progetto giovane, per tutti: i movimenti bancari e le storie di un’intera città racchiuse in un luogo magnifico.
Da sempre Napoli è una città fenomenale dal punto di vista artistico e storico. Pur venendo spesso maltrattata dai media per via dei suoi volti più oscuri, la città accoglie unicità rare per quanto concerne il patrimonio culturale italiano, ponendosi come riferimento per tutto il Paese. E proprio Napoli, in una strada del quartiere San Lorenzo, nasconde un autentico gioiello che potrebbe cambiare i destini della cultura nazionale. Un luogo fantastico che racchiude documenti, carte antiche, storie, magia.
Il Cartastorie è un progetto teoricamente neonato, ma che ha già accolto in sé vari successi e recensioni positive. Una struttura che ha, come intento unico, quello di divulgare la realtà di un passato che ci sembra lontanissimo ma che, invece, è più vicino di quanto si possa credere. Tra i posti ancora non troppo noti di Napoli, forse, questo è il più affascinante, oltre che il maggiormente ricco di grazia culturale. E, nell’ambito della nostra rubrica, non potevamo di certo esimerci dall’ammirarlo con occhi sgranati. Per far sì che questo posto abbia una giusta risonanza mediatica, abbiamo intervistato uno dei responsabili del progetto, Andrea Zappulli: nella chiacchierata sono emerse, ovviamente, tutte le bellezze e gli obiettivi di questo scintillante percorso.
Cartastorie: la composizione del team
Ciò che assume subito importanza è la quantità di persone che si sono trovate ad accogliere nella propria vita una sfida così impegnativa. «Il progetto si è dotato da qualche mese di una sua struttura organizzativa anche formale, poiché è diventato una Fondazione» spiega Zappulli. «C’era necessità di avere dei ricavi, di mettere a frutto ciò che volevamo valorizzare. Il responsabile organizzativo è Sergio Riolo, che gestisce e coordina le attività. Poi c’è un team, molto giovane e composto da poche persone: c’è un videomaker – perché noi alterniamo la carta, presente qui da 400 anni, alla multimedialità – di nome Damiano Falanga. C’è Andrea Manfredonia, che si occupa di relazioni e convenzioni. Ci sono io che faccio un po’ di ricerca, presento il prodotto e mi diletto come storyteller, una figura un po’ carente qui in Italia. C’è poi Alessia Esposito che si occupa della comunicazione».
Quest’organizzazione riguarda, però, soltanto il museo in sé. «Nella parte del laboratorio di digitalizzazione ci sono Raffaele Di Costanzo, Luigi Abetti e Sabrina Iorio, che trascrivono e digitalizzano i documenti».
Ma cosa riguarda il servizio offerto? La risposta potrebbe stupirvi: «L’idea è stata questa: la Fondazione Banco Napoli possiede questo patrimonio enorme che è l’Archivio Storico. Sono 330 stanze, l’archivio bancario più grande del mondo. Si è deciso non solo di metterlo a disposizione degli studiosi, ma anche di renderlo fruibile ai cittadini. Quindi abbiamo musealizzato una parte dell’archivio. Noi non siamo un museo di carte, ma di storie: facciamo vedere prima il contenuto dei documenti e poi il documento stesso. Solitamente gli archivi non si visitano, e se si visitano non si capiscono, e se si capiscono non lo si fa in prima persona. Quindi noi abbiamo puntato sulla leva dell’originalità. Grazie a questa idea, realizzata da Stefano Gargiulo e la Kaos Produzioni, che le carte potessero raccontare ciò che contengono, tutto questo è diventato più accattivante e più facile».
Ovviamente tale impostazione consente di differenziarsi dalla massa: «Esponiamo frammenti di memoria del Mezzogiorno. Ci stiamo ampliando: abbiamo un percorso multimediale, sale dedicate alla musica e al terzo piano abbiamo una mostra di documenti e video su Caravaggio e sugli scavi di Ercolano, poiché conserviamo parte della vita dei protagonisti di quella stagione archeologica».
Nel cuore di Napoli
Ritornando sulla questione storytelling – come detto piuttosto carente nel nostro Paese, su tutti i livelli – ovviamente questo comporta uno stile differente dagli altri e, di conseguenza, onori ma anche oneri nel poter gestire un progetto così grande e ambizioso. «Lo storytelling è presente solo in un settore economico, poiché una parte molto accademica delle Università o del marketing lo ha venduto in Italia come strumento di pubblicità» rivela Zappulli. «Si è poi ritagliato una nicchia nel campo delle aziende, perché così si racconta il successo della stessa. In realtà è il modo migliore per divulgare cultura. Se davanti a me ho un platea di ragazzi, è meglio raccontare la storia con dentro informazioni piuttosto che le informazioni in cui all’interno c’è una storia. L’onore è che questo progetto è originale e funziona, è rivolto a tutti. Non devi essere per forza un archivista per venire qui dentro, o sapere per forza chi è Carlo III. L’onere è che passa in ombra un lavoro pesante che c’è: per fare storytelling sicuro devi fare tanto studio, quindi scegliere prospettive scientificamente innocue. Così non si tocca il gotha degli studiosi napoletani del ‘700 e nessuno si arrabbia. In questa maniera c’è un lavoro pulito a livello storico».
D’un tratto, però, emerge una domanda particolare: questo stesso museo, qualora si trovasse situato in un quartiere maggiormente “borghese” e non nel cuore del centro storico, avrebbe lo stesso risalto? «Secondo me no. Ci sono però, anche in questo caso, lati positivi e altri che rappresentano una sfida. Sicuramente è un bene che sia nato qui, perché è un enorme scrigno della memoria storica di Napoli: il Decumano Maggiore, Castel Capuano… in questi vicoli passa la storia. Al contempo, però, questo stesso luogo è quello dove la storia napoletana è meno percepita da chi ci vive. Questo scrigno dev’essere sfiorato, aperto, sbirciato, deve riportare linfa nelle venature di questa pianta urbana che è il centro storico di Napoli, a partire da questo cuore. Guardo spesso i marciapiedi di fronte al museo e penso che – il giorno in cui riusciremo a mantenere questo vicolo allo stesso livello del museo – avremo raggiunto una delle mission che ci siamo posti come obiettivo».
Per un non napoletano, che spesso osserva la città con gli occhi non proprio dolci di alcuni media, cosa può significare avere a che fare con un progetto del genere? «Devo dire che il progetto ha avuto ottimi riscontri anche fuori Napoli». Il perché è presto detto: «Essendo originale ha attirato l’attenzione. In realtà il discorso è però più critico: credo che una delle maggiori esigenze del nostro Paese – ma, in generale, di tutte le democrazie occidentali – sia quella di sensibilizzare alla curiosità e alla voglia di conoscenza storica. Benedetto Croce diceva che, senza un’affezione sentimentale alla propria storia, non ci può essere un presente sociale costruttivo: a Napoli è verissimo! Andrebbe scritto sulle porte delle scuole. Ma lo è anche per il resto d’Italia. Questo è l’inizio di un progetto che si spera diventi grande. Penso che la reazione di fronte a tutto ciò sia positiva, poiché un archivio a Napoli che non versa in condizioni di emergenza e che addirittura si musealizza non può che rappresentare un bene. Credo che andrebbe colto il significato più profondo di questa operazione. Quando vengono gli adolescenti qui faccio sempre una domanda: ‘A cosa serve ricordare?’. Può essere la strada per la voglia di approfondimento storico, che dev’essere rilanciata. Ed è quello che vogliamo fare adesso».
Tra storie e obiettivi
Il Cartastorie, sostanzialmente, raccoglie movimenti bancari di secoli e secoli di storia. Di conseguenza, attraverso questi movimenti, si può addirittura risalire alla composizione del proprio albero genealogico. «Bisogna venire dotati di qualche informazione e poi si può scoprire cosa facessero i propri avi. Io stesso ho trovato, tra i miei antenati, un avvocato che ha pubblicato una pessima opera sulle capitali d’Europa agli inizi del ‘600, oppure un mastro di campo ai tempi di Masaniello. Si possono scoprire cose molto interessanti, e questo è importante per i ragazzi, perché facciamo loro trovare la prova che i loro antenati lavoravano e possedevano una parabola sociale ascendente. Questo dà loro un bel messaggio, poiché restituisce la memoria storica nobilitante, che in molti casi è stata tolta».
D’altronde, il progetto Cartastorie si basa soprattutto sui giovani. Pur rivolgendosi a tutti, quello dei ragazzi è il pubblico su cui questo museo-archivio conta di fare più presa. Il compito principale? Quello di mutare la prima impressione. «Devo dire che l’aspettativa noiosa iniziale gioca moltissimo: la gente viene qui aspettandosi una passeggiata tra le carte, ma poi per fortuna emerge la curiosità. I giovani rimangono meravigliati».
Le storie, come dicevamo, sono migliaia. Per il nostro interlocutore è difficile sceglierne una in particolare da preferire. «Questa è una bella domanda… Non mi ci sono mai soffermato. Ultimamente, però, con i ragazzi dei laboratori abbiamo lavorato sugli scavi di Ercolano ed è emersa, seppur in maniera molto minuta, la figura di Rocco Gioacchino de Alcubierre. Fu definito da Winckelmann, padre dell’archeologia moderna, ‘uno che ha a che fare con l’archeologia come la luna con i gamberi’. In realtà è il ritratto non solo di un lavoratore, ma anche di un uomo fedele alle sue concezioni. Resta interessante trovare queste storie di nobile mediocrità, che poi sono gli obiettivi reali a cui il 99,9% della popolazione mondiale può aspirare. Di certo è bello che questa persona adesso abbia un suo spazio». La più bella in assoluto tra le storie, però, è un’altra: «Certamente quella di Filippo, il figlio di Carlo III. Aveva un non meglio precisato problema di cognizioni. Ho scritto un racconto, a riguardo, che è finito anche su una raccolta de Il Mattino chiamata Segreti d’Autore: ci sono stati anche degli spettacoli teatrali. Racconta un protagonista sfortunato, legato alle bellezze della sua quotidianità mista a tragedia. In queste storie troviamo sempre qualcosa di personale».
Il Cartastorie sembra un vero e proprio Paradiso della cultura, oltre che un’eccellenza. Quali sono, dunque, le speranze che possono risiedere in questo progetto per il presente e per il futuro? «Devo essere estremamente pragmatico: puntiamo a emergere come operatore culturale per la zona ma anche per l’Italia. Ma tutto ciò non può avvenire se non teniamo presente che il nostro primo obiettivo dev’essere quello di restituire una conoscenza, un’affezione sentimentale a Napoli e al Mezzogiorno. Se noi buchiamo quest’obiettivo, restando solo un posto bello e originale che però non riesce a focalizzare l’attenzione su questo valore, saremo una bella realtà è basta. Io credo e spero che la partita sull’eccellenza di questo posto si basi soprattutto sulla capacità di focus sull’obiettivo. E sono molto fiducioso del fatto che ce la faremo». E noi, per il bene della cultura e di una splendida città, non possiamo che augurarci lo stesso.
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