Bambini, passione e sacrifici: le realtà del calcio dilettantistico
Viaggio alla scoperta del calcio dilettantistico: quello silenzioso, mosso soltanto dalla forza di volontà e dall’amore per lo sport. A dispetto di tutto il resto.
In una visione narcisistica e forse irreale della vita, quello del calciatore è probabilmente il mestiere più bello del mondo. Donne, soldi, sponsor e tanta gloria. Avanzamenti di carriera continui, stipendi da sogno. Persino la possibilità, diciamola tutta, di poter emergere rispetto al resto del mondo pur non essendo eventualmente in possesso di intelligenza, umanità e creatività superiori alla media. Il trionfo della normalità che diventa anormalità, successo, quasi redenzione. Un’isola felice per il proprio ego, il sogno che ogni bambino decide di inseguire e, molto spesso, il primo a essere infranto.
Ogni medaglia, da che mondo è mondo, possiede però due volti. E se il primo risulta lussureggiante, sfarzoso e a tratti anacronistico, l’altro dipinge una realtà ben differente da quella immaginata dai più. Essendo uno sport estremamente sviluppato a livello mondiale e, di conseguenza, decisamente integrato nella cultura popolare e civile, molto spesso il calcio nasconde realtà non esattamente in primo piano, sia a livello di ricchezza monetaria che di prestigio e blasone.
Un calciatore della Lega Pro, la terza serie professionista italiana, spesso può arrivare a guadagnare anche come un operaio malpagato. C’è persino chi, invece, nemmeno viene pagato per giocare. Un concetto che può far storcere il naso a molti, poiché di solito – quando si pensa al calcio – la mente viaggia, costruendo un meccanismo fatto di ingranaggi indistruttibili. Alcuni però non tengono conto di una prerogativa fondamentale: un calciatore mette in campo il suo corpo, che funge dunque come strumento da lavoro. Un corpo che può danneggiarsi, rompersi. E che, evidentemente, con l’avanzare degli anni paga il pegno di una scelta consapevole di vita. Non è un caso, in effetti, che alcuni sportivi abbiano deciso di assicurare braccia e gambe in caso di spiacevoli conseguenze derivanti dall’attività.
Non è tutto oro quello che luccica
Ritornando a un sentore errato di ricchezza universale, i numeri sono piuttosto allarmanti e vanno citati per rendersi conto della situazione. Proprio recentemente FIFPro, il sindacato dei calciatori, ha messo in luce delle statistiche abbastanza preoccupanti. Come riportato da un’inchiesta interna, su 13.000 giocatori interpellati e facenti parte di 87 campionati professionistici (tra cui la Serie A), il 45% ha ammesso di guadagnare meno di 1000 dollari al mese. Addirittura il 40% spiega come gli stipendi vengano pagati in ritardo, anche a distanza di mesi.
In Italia, bisogna dirlo, siamo relativamente fortunati rispetto ad altri paesi esteri: un calciatore professionista guadagna, in media, tra i 4.000 e gli 8.000 euro al mese. In Africa, invece, la situazione è drammatica: quasi il 75% dei calciatori riceve uno stipendio inferiore ai 1000 dollari, e addirittura il 70% degli intervistati ha ammesso, ovviamente in forma anonima, di non aver mai terminato gli studi basilari. Insomma, nel calcio non tutto è candido e cristallino come si può pensare. Ed è per questo che le storie apparentemente più insignificanti risultano essere anche quelle maggiormente affascinanti.
Un piccolo, grande mondo
Lontano dai campi internazionali, dagli stadi pieni e dalle illustri rappresentanze è presente un macrouniverso senza lente d’ingrandimento. È quello del calcio dilettantistico, che solo ultimamente sta trovando maggiore spazio nelle cronache sportive, anche a causa di alcuni fallimenti eccellenti di società blasonate. Due esempi lampanti sono quelli di Siena e Parma: soprattutto il fallimento del club ducale ha generato notevoli perplessità, poiché a crollare era un ex gigante del calcio nostrano. Una realtà, quella dei dilettanti, nella quale si intrecciano storie disparate, di sogni e speranze vane ma anche di progetti che, nel loro piccolo, danno un contributo ideale a un pallone che affonda le sue radici nei criteri più basilari del movimento sportivo. E così, tra gioie e dolori, sono tanti i racconti e gli aneddoti di vite dedicate a un certo modo di fare calcio, silenziosamente.
Quando i bambini fanno gol
Domenico Silvestro, ad esempio, è un ragazzo di Cicciano, comune in provincia di Napoli. Come tanti ha studiato, ottenendo una laurea e cercando per se stesso un futuro coerente. Come pochi, invece, ha scelto di dedicarsi a una passione che non gli frutta entrate in termini monetari, quanto piuttosto a livello esperienziale. Allena bambini, potenziali piccoli campioni del domani, per la scuola calcio Future Boys di Casamarciano. Un progetto che ha preso in parte le redini dell’A.S.D. Foglia Club, ex scuola calcio gestita da Felice Foglia, un ex giocatore che in passato è riuscito anche a calcare i campi di Serie A con la maglia del Torino. Quel progetto è stato però sciolto e tutti gli iscritti, tra calciatori e tecnici, si sono divisi nei territori circostanti. «La nostra è una delle scuole calcio storiche della zona. Fino a qualche anno fa era ferma, ora l’abbiamo fatta rinascere» spiega Domenico.
Come si diceva, Domenico lavora con i piccolissimi: «Nel mio gruppo si allenano ragazzi dal 2007 al 2010, anche se il campionato cui partecipiamo è il 2008/2009. Inoltre i miei colleghi allenano anche bambini classe 2004, 2005 e 2006». Allenare bimbi così piccoli comporta difficoltà che possono diventare enormi, se non si pone rimedio alle incertezze: «Allenare i bambini è dura, perché devi essere educatore prima che allenatore. Devi dare delle regole ma, al tempo stesso, devi anche farli sfogare e divertire dopo una giornata di scuola». Paradossalmente, molto spesso il problema principale diventa gestire le reazioni dei genitori. Sugli spalti, infatti, non sempre chi assiste mantiene un comportamento impeccabile e rispettoso: «Nel mio contesto sono fortunato perché i genitori ci danno carta bianca, non interferiscono e ci aiutano in maniera incredibile. Però ti assicuro che più volte abbiamo affrontato squadre in cui gli adulti fuori dal campo erano un fattore di distrazione. Inoltre, incattiviscono spesso i piccoli contro avversari e arbitro. Questa gente non capisce che in campo non ci sono dei milionari che giocano la Champions League, bensì dei bambini che vogliono prima di tutto divertirsi».
Scelte di vita
Inutile dire che le strutture risultano essere il problema principale per un progetto del genere. «Quest’anno siamo stati più fortunati perché il centro dove ci alleniamo è grande e abbiamo i nostri spazi. Il campo però dobbiamo condividerlo costantemente con altre squadre» spiega il tecnico con una punta d’amarezza. «Ovviamente quello che abbiamo ce lo facciamo bastare. Pensa però anche alle cose non strettamente collegate al terreno di gioco, come palloni, conetti, casacche, un pulmino che vada a prendere i bambini». Ciò che di certo non manca è la voglia di andare avanti: «Quello che abbiamo in fondo va bene: facciamo il massimo in base alle nostre possibilità».
Al pari di tanti altri ragazzi, anche Domenico ha provato ad andare via dall’Italia per cercare maggiori fortune. Dopo qualche mese in Portogallo, con un lavoro e un’autonomia raggiunta con fatica e ardore, ha però deciso di tornare indietro. E lo ha fatto anche per i suoi piccoli calciatori: «L’esperienza all’estero mi è servita e la rifarei senz’altro. Ma con i bambini e con i loro genitori si è creato un rapporto molto forte» rivela. «Adoro il calcio più di qualsiasi altra cosa, ma purtroppo alcuni infortuni alle ginocchia in giovane età non mi hanno permesso di iniziare una carriera attiva. Ora cerco di applicare la mia passione nello studio di questo sport, aiutando gli altri a fare ciò che io non sono riuscito a portare a termine. Ho preso alcuni di questi bambini quando neanche sapevano come calciare una palla: ora vederli dribblare, stoppare e fare gol mi riempie di orgoglio».
Inevitabilmente, anche la vita personale molto spesso viene messa in standby, per via delle tante cose da organizzare. Molti sacrifici vanno fatti, altri saranno ancora da fare. Per questo è impossibile non chiedersi se a volte, durante un momento di crisi, Domenico abbia mai pensato: «Ma chi me l’ha fatto fare?». L’amore per il calcio, specie in questa sua forma, supera anche dubbi di tale portata: «Onestamente non ci ho mai pensato, anzi. Sento che è ciò che mi piace davvero, e vorrei fare anche di più per studiare e migliorare. Più miglioro e più ho possibilità di insegnare ai miei allievi a crescere, sia come calciatori che come persone. La formazione è importante a questi livelli, specialmente per capire quali sono gli obiettivi che vuoi porti alla fine di un percorso. Non è semplice, perché se l’allenatore sbaglia a questi livelli il ragazzo ne subisce le conseguenze fino al professionismo. Sempre che ci arrivi!»
Seconda categoria
Di tenore simile ma al tempo stesso differente è la realtà di Salvatore Ioime, anch’egli giovane cresciuto in Campania. Dopo esperienze attive nel Futsal e in un presente che lo vede imporsi anche come analista tecnico, oggi svolge persino il ruolo di vice allenatore per una squadra della seconda categoria campana. «Alleno il Real Pago, in questo momento siamo primi in classifica nel nostro girone, con una partita da recuperare e con quattro giornate ancora da giocare per il girone d’andata» spiega Salvatore. Ovviamente, a questi livelli, possedere uno stadio o un campo di proprietà è un vero e proprio miraggio. Ci si arrangia come si può, cercando soluzioni alternative per riuscire a porre delle fondamenta giornaliere in un programma di lavoro sportivo: «Ci alleniamo vicino Pago, precisamente a Taurano, in un campo comunale per cui dobbiamo chiedere la disponibilità».
Impossibile, come si direbbe in zona, “campare di calcio”. I costi leviterebbero anche per il meno dispendioso dei progetti, ed è dunque impossibile accontentare tutti. Lo strumento che muove il cuore e le gambe di chi si getta anima e corpo in questi contesti è senza dubbio la passione, immortale e imperitura, che avvolge l’anima di chi aspetta solo l’allenamento quotidiano per mettersi in mostra, rilassarsi o semplicemente distrarsi dopo una giornata dura. «Quasi tutti quelli che giocano con noi lo fanno unicamente per passione… la gente lavora e poi viene in campo, di solito di sera, per cercare di dare tutto due giorni alla settimana. In queste categorie va così. Ma con organizzazione e rispetto, come avviene anche nelle categorie superiori, si può fare meglio».
Continuare a crederci
L’arma più temibile (e al tempo stesso la più grande qualità) per un calciatore non professionista è certamente la volontà – che a volte si tramuta persino in necessità – di compattarsi con il resto dell’ambiente, fino a divenire una cosa sola con i compagni. «Il gruppo è la cosa fondamentale. Magari si cena tutti insieme, tra giocatori e staff, per allontanare i pensieri di una giornata dura al lavoro o di un allenamento più difficile del solito. Il gruppo è certamente il segreto di questo calcio di periferia».
Anche a Salvatore poniamo la stessa domanda fatta a Domenico: il gioco vale davvero la candela? «Sicuramente qualche volta ho pensato di mollare, in questi anni. Economicamente non ci sono compensi, quindi tutto quello che ti ripaga è il rispetto che riesci a instaurare da allenatore nei confronti dei tuoi giocatori. O con i compagni, quando sei anche tu un calciatore. O il risultato del sabato, quando vai in campo per vincere e surclassi gli avversari, dopo che hai fatto un mese di preparazione, tre di allenamento o sei mesi di partite fino a maggio. È solo vincendo che non pensi alle fatiche degli allenamenti di sera, al freddo». Lasciare tutto, di conseguenza, non è un’opzione percorribile.
La forza dell’amore
Le storie di Domenico e Salvatore, ragazzi come tanti in giro per l’Italia e per l’Europa, lasciano ampi margini di riflessione. Specialmente sulla necessità di creare un collante tra un certo tipo di calcio, più “mainstream” e frequentato da salotti di addetti ai lavori e appassionati, e un qualcosa che invece sia più vicino ai valori che dovrebbero rappresentare questo sport. Magari sulla veridicità del dover investire proprio su questi territori, come d’altronde sta iniziando a fare la Cina per ampliare il suo bacino d’utenza.
Il fascino di contesti così piccoli e battaglieri prevale sovente su manifestazioni solo teoricamente più coinvolgenti, più che altro per il grado di sacrificio che coinvolge ogni singolo pezzo di un mosaico plasmato su una fede incrollabile come quella per il pallone. Una forza, paragonabile quasi all’amore, talmente potente da consentire a chi se ne rende portabandiera di dimenticare, per almeno novanta minuti, tutto il marcio del mondo.